La Cassa depostiti e prestiti un residuo del passato che ritorna? O, peggio, un carrozzone statalista e inefficiente? Nel palazzo umbertino sul fianco destro del ministero dell’economia, dove la Cdp si erge quasi a proteggere il Tesoro, le accuse bruciano e sono pronti a respingerle. L’ufficio studi ha calcolato che il contributo concreto della Cassa alla crescita italiana è stato pari a un punto virgola sette di prodotto lordo lo scorso anno. E non è finita: nel prossimo biennio potrà raddoppiare. Il calcolo è semplice anche se utilizza una complessa matrice input-output: la Cdp ha spostato risparmio verso attività produttive per circa 16 miliardi di euro. Dunque, siamo a poco più dell’un per cento del pil. L’impatto finale dipende dal moltiplicatore il quale a sua volta dipende dal tipo di attività che si va a finanziare. Secondo l’ufficio studi, finora è stato di 1,6, ed ecco perché si arriva a quel risultato. In base agli impegni presi finora, la Cassa dovrebbe spendere due punti di pil a partire dal 2014. Il loro effetto moltiplicatore non è stato ancora stimato, perché dipende dalla natura degli impieghi: un euro speso nell’edilizia ha un effetto diverso rispetto a un euro speso nell’informatica. Ma il calcolo farà parte di un complesso studio tecnico a uso interno.
Se le cose stanno così, vuol dire che la ripresa dell’economia italiana dipende tutta da Franco Bassanini e Giovanni Gorno Tempini, i due uomini al vertice di quello che in molti chiamano il nuovo Iri? Piano con le conclusioni. Quel che si può dire è che la recessione senza di loro sarebbe stata più dura. Dunque, aveva ragione Giulio Tremonti quando nel 2003 mise in moto una macchina che ora tira a tutto vapore? E si sbagliano i liberisti che evocano i tentacoli del Leviatano e scommettono su quell’intreccio di inefficienza pubblica e voracità politica che rende lo stato nemico del mercato e una palla al piede per lo sviluppo? E’ presto per proclamare il vincitore. Le due opposte scuole di pensiero non saranno mai d’accordo. Quanto ai non militanti, dovranno giudicare dai risultati.
Tremonti si era mosso non solo perché aveva già elaborato una antipatia intellettuale e personale verso quelli che avrebbe poi definito “mercatisti”, ma anche perché le sue prime esperienze come ministro del Tesoro lo avevano messo davanti a due vere macchine da guerra: la Caisse des dépots et consignations in Francia, creata nel 1816 per finanziare il Tesoro (ad essa si ispirò il Regno di Sardegna per la Cdp) e il Kfw acronimo di Kreditanstalt für Wiederaufbau (la banca della ricostruzione), in Germania. Quest’ultimo è nato nel 1948, per volere degli Stati Uniti d’America, con il compito di gestire i fondi del Piano Marshall. Il suo attivo sfiora i 500 miliardi di euro, circa il doppio della Cassa depositi e prestiti. L’80% del capitale è detenuto dal governo federale mentre il restante 20% è dei Länder. Al Kfw fanno capo i pacchetti di controllo di Deutsche Telekom e Deutsche Post. La Caisse resta un ente pubblico che controlla gruppi come France Télécom e anche un gran numero di pacchetti azionari in aziende private.
Nessuno dei due soggetti stranieri ha azionisti esterni al perimetro pubblico, a differenza dalla Cdp. Tremonti, infatti, ha coinvolto Giuseppe Guzzetti, il grande capo delle fondazioni di origine bancarie, a prendere il 19% diviso in piccole quote (le maggiori, pari al 2,5% ciascuna, sono di Sanpaolo, Cariplo, Cassa di risparmio di Torino, Montepaschi, Cariverona). Con un doppio vantaggio: garantirsi che l’Unione europea non considerasse gli interventi della Cdp come aiuti di stato e tenere a una certa distanza la politica. Lo statuto, infatti, impone un vincolo dell’85% su ogni scelta strategica, il che obbliga il coinvolgimento delle fondazioni. E’ vero che i loro organismi dirigenti vengono nominati dagli enti locali, quindi il filtro non è esattamente il mercato, ma in ogni caso introduce un bilanciamento, un gioco di pesi e contrappesi. Tremonti è un convinto sostenitore della politique d’abord, ma proprio per questo si rende conto di quanto facili siano le intromissioni e quanto forte la discrezionalità del governo. Lo si è visto recentemente quando si è cercato di far intervenire la Cdp nel capitale di Telecom e poi soprattutto in Alitalia. Non è stato facile, ma l’amministratore delegato ha tenuto duro, proprio statuto alla mano.
La Cassa e i suoi bracci operativi, a cominciare dal Fondo strategico italiano gestito da Maurizio Tamagnini o dal fondo per le infrastrutture, F2i, guidato da Vito Gamberale, non intervengono nelle imprese sull’orlo del fallimento; nei loro compiti non c’è il salvataggio, ma lo sviluppo. Ciò vuol dire che solo se un’azienda è fondamentalmente sana, può rivolgersi alla Cdp. Allora perché le hanno appioppato Ansaldo energia? E’ una eccezione o la nuova regola? E’ stata una scelta subita, su questo pochi hanno dubbi, e alla Cassa sottolineano che non si tratta di una impresa fallita; lo stesso si può dire per Avio spazio. Ma, alla fine della fiera, la partita di giro aiuta Finmeccanica (della quale la Cdp detiene il pacchetto di maggioranza) a risanare i propri conti grazie al risparmio postale. Insomma, non può essere definita una operazione all’insegna dell’efficienza e del mercato.
Non solo. La Cassa non è un ente di partecipazione. Questa è la differenza dall’Iri, quanto meno dall’Iri del dopoguerra, perché l’istituto originario pensato da Raffaele Mattioli e fondato da Alberto Beneduce, doveva essere uno strumento temporaneo per aiutare le imprese colpite dalla grande crisi del 1929 a risanarsi e poi collocarle di nuovo sul mercato. Più o meno quel che hanno fatto gli americani negli anni scorsi nelle banche e nell’auto, pur senza creare altri apparati burocratici.
Gli uomini di Bassanini e Gorno insistono che il paragone è in ogni caso inappropriato. In Italia non ci sono i fondi pensione, e i fondi comuni gestiti dalle banche hanno dirottato il risparmio dei depositanti verso impieghi finanziari se non speculativi, invece la Cassa sposta una parte del risparmio postale verso impieghi produttivi. E non c’è solo Ansaldo, anzi. Ci sono soprattutto le 70 mila piccole e medie imprese finanziate, sono queste che fanno prodotto lordo. C’è l’Eni. E ci sono le reti, il gas con Snam, l’elettricità con Terna, forse un domani le telecomunicazioni.
Il governo Monti ha girato alla Cassa anche la Sace (l’assicurazione sull’export) aumentando la sua natura di ircocervo, animale difficile da definire. E’ una banca, un fondo sovrano, un ente pubblico economico? Non si tratta di una domanda per azzeccagarbugli, perché se venisse considerata una banca, dovrebbe rispettare certi parametri (anche di capitale). La Banca d’Italia ha concluso una ispezione e la vigilanza dovrà esprimere il proprio parere.
Spiega Claudio De Vincenti, sottosegretario allo Sviluppo economico: «Cdp e Fsi devono restare soggetti orientati al mercato, con il vincolo cioè di investire in iniziative con ritorno economico (devono remunerare il risparmio postale, cioè il risparmio di tante famiglie italiane); è una forma nuova di intervento basata su soggetti distinti dalla politica, che hanno una missione di interesse generale, però operano sul mercato e secondo regole di mercato». Se è così, dovrebbe cercare un acquirente per Ansaldo energia. Vedremo se accadrà davvero. In un intervento sull’Unità, l’economista ricorda al Partito democratico che «una incisiva politica economica di sinistra non può essere la riedizione di esperienze passate che non a caso sono state travolte dalla restaurazione conservatrice degli anni Ottanta: è ora di costruire un intervento pubblico che sappia interagire costruttivamente con i mercati e per questo sappia innervarli con consapevoli scelte collettive riguardo agli interessi generali».
La mano pubblica, ben visibile, aiuta la mano invisibile del mercato, si potrebbe dire. Purché una mano non lavi l’altra e anche questo modello intermedio, questa terza via tra lo statalismo e il mercatismo, non diventi ancora il classico modo di pubblicizzare le perdite e privatizzare i profitti. Nonostante i calcoli dell’ufficio studi, infatti, la Cdp resta finora una macchina da difesa. Per fare crescita non basta.
Gli strumenti esistono, senza ricadere nei vecchi vizi, sostiene De Vincenti il quale valorizza molto i contratti di sviluppo o gli accordi di programma come quelli stipulati a Taranto, Piombino e Trieste. Non si tratta di salvare un’impresa, insiste il sottosegretario, ma di rilanciare una filiera industriale. E a chi accusa il governo di neostatalismo, ricorda che per la prima volta in molti anni non è stata tagliata la spesa farmaceutica per rispettare una legittima richiesta dell’industria che non vuole sovvenzioni, ma regole certe, la garanzia che nei prossimi anni le cose non cambieranno in modo discrezionale, così da poter investire nella ricerca e nello sviluppo. «Il mercato è una misura dell’efficienza e della libertà e in questo la sinistra ha perso la sua battaglia contro il neoliberismo», sottolinea De Vincenti tornando professore di economia politica, durante un incontro organizzato a Roma da Formiche. «Ma il mercato ha bisogno di regole che possono venire solo dall’autorità pubblica, alla quale spetta livellare il terreno di gioco e garantire un fair play».
E allora come la mettiamo con le nuove norme sull’offerta pubblica d’acquisto? Il Senato ha approvato a larghissima maggioranza la mozione presentata da Massimo Mucchetti per introdurre accanto al criterio del 30% del possesso azionario anche quello sul controllo di fatto. Non è questo un cambiare le regole in corsa? Oltretutto con l’obiettivo preciso di bloccare Telefònica in Telecom Italia, come accusano in molti tra i quali l’economista Alessandro Penati? «Le regole non vanno mai modificate in peggio – replica De Vincenti – e in questo caso si presuppone ci sarà un miglioramento per gli azionisti di minoranza; in ogni caso, mi sembra una modifica che guarda al futuro non al passato. In Telecom la situazione è in divenire». E’ quel che pensa anche Giovanni Bazoli, presidente di Intesa, il quale ha replicato indirettamente all’attacco rivolto da Carlo De Benedetti durante il convegno dei giovani industriali venerdì scorso.
Nessuno, in ogni caso, può negare che in Italia si stia vivendo un revival protezionista. E non solo qui. Secondo The Economist è una tendenza generale, conseguenza della grande crisi. Quanto allo statalismo, un ritorno all’era pre Thatcher è impossibile, lo impedisce la crisi fiscale in Occidente, mentre l’Asia è thatcheriana, persino la Cina con il suo matrimonio tra dispotismo e mercato, mutuato da Singapore vecchio amore della lady di ferro. Il rischio è che, consumato un modello senza averne costruito un altro, vengano fuori solo dei gran pasticci. Proprio come Alitalia…