Perché l’Italia non partecipa ai negoziati con l’Iran?

Le trattative in sede Onu

Si riapre la partita per il nucleare iraniano dopo il tiepido riavvicinamento tra Washington e Teheran avvenuto lo scorso mese con il primo contatto telefonico tra Obama e Rohani al termine di 34 anni di gelo diplomatico. L’occasione è la due giorni di trattative a Ginevra con i membri permanenti del Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite e la Germania (5+1). Alla vigilia degli incontri gli Stati Uniti hanno assicurato che i nuovi negoziati potrebbero determinare la fine delle sanzioni.
Ma perché il governo italiano è assente nel negoziato? A conclusione dell’Assemblea generale dell’Onu del settembre scorso, il premier italiano Enrico Letta, rispondendo alle domande dei giornalisti e mentre in Italia si minacciava una crisi di governo, ha manifestato interesse per una, seppur tardiva, partecipazione italiana al negoziato sul programma nucleare. Dopo il faccia a faccia con Rohani, Letta ha dichiarato che «con l’Iran in questi anni c’è stata incomunicabilità». Ma è andato ben oltre aggiungendo che chiudere con la stagione dell’isolamento di Teheran è «nell’interesse strategico di tutti e l’Italia giocherà la sua parte». 

Italia e negoziato sul nucleare
L’Italia per anni è stata, insieme alla Germania, il primo partner commerciale europeo dell’Iran e il quinto globale, dopo Russia, Cina e Giappone. Le sanzioni internazionali a Teheran hanno dato un duro colpo all’economia italiana. È complesso ricostruire il ruolo italiano nel negoziato con l’Iran. A partire dalla creazione del gruppo di contatto europeo dell’ottobre 2003, per poi passare al tentativo negoziale degli incontri tra autorità iraniane e italiane nel 2006, Roma non ha mai seduto sul tavolo negoziale.
La questione nucleare iraniana si è aperta nel 2003 con la denuncia da parte del Consiglio nazionale della resistenza d’Iran – dal 1986 con sede operativa a Baghdad – della presenza di siti non segnalati all’Agenzia internazionale per l’energia atomica (Aiea) e dello sviluppo di un programma di arricchimento dell’uranio nelle città di Natanz, Arak e Saghand. Il Consiglio nazionale della resistenza d’Iran è un gruppo composto da Mojaheddin-e Khalq, curdi del Kdp-I (Partito democratico dei curdi iraniani) e liberali, vecchi seguaci dell’ex-presidente iraniano Bani Sadr: tre tra i maggiori gruppi di opposizione al regime degli ayatollah costretti all’esilio sin dai primi anni successivi alla Rivoluzione Islamica. 

Dopo l’intervento degli Stati Uniti in Iraq del 2003, era riemersa la questione dello status giuridico da attribuire ai militanti dei Mojaheddin-e Khalq presenti su territorio iracheno ma, grazie alle informazioni sulla questione nucleare, almeno 4.000 membri del gruppo hanno ottenuto dal governo provvisorio iracheno lo status di rifugiato politico. E così, sostenere la validità della denuncia del Consiglio nazionale di resistenza ha costituito nel 2003 una dura presa di posizione contro le istituzioni iraniane post-rivoluzionarie. E gli Usa ne hanno tenuto conto per legittimare la presenza dell’Iran tra i paesi dell’«asse del male». 

Quando nel 2003 Francia, Germania e Gran Bretagna hanno aperto i colloqui negoziali con l’Iran, l’Italia era presidente di turno del Consiglio europeo. I tre paesi Ue hanno avviato dei contatti con le autorità iraniane per fermare il programma nucleare e per raggiungere un accordo, allo scopo di evitare possibili iniziative degli Stati Uniti. Secondo fonti diplomatiche, gli iraniani hanno chiesto ad altri Paesi, tra cui l’Italia, di entrare a far parte del gruppo di contatto. Nonostante ciò, l’Italia nell’ottobre del 2003 non è entrata nel negoziato per il nucleare iraniano, poiché, in quel momento, l’evoluzione del negoziato appariva del tutto ambigua. Da una parte, la leadership iraniana sembrava infastidita dai modi con cui la questione era stata sollevata, dall’altra, le possibili iniziative degli Stati Uniti apparivano ancora incerte.

I colloqui del gruppo di contatto non avevano il sostegno dell’amministrazione Usa, e neppure di tutti i Paesi europei. Questo ha indebolito in modo rilevante la credibilità dei negoziatori agli occhi delle controparti iraniane. Gli iraniani hanno deciso di sospendere volontariamente e temporaneamente l’arricchimento dell’uranio nel novembre del 2004. Soltanto nei primi mesi del 2005 gli E-3 hanno ottenuto l’avallo dell’Ue e l’appoggio degli Stati Uniti. Tuttavia, pochi mesi dopo, nell’agosto 2005, l’Iran ha ripreso le attività preliminari all’arricchimento dell’uranio in alcuni suoi impianti provocando l’interruzione del negoziato con gli E-3. In quel momento, si apriva una nuova fase nella politica iraniana con il fallimento del movimento riformista e l’inasprimento dei conservatori in seguito alle elezioni parlamentari del 2004 e presidenziali del 2005. La questione nucleare era divenuta per la leadership iraniana sempre più elemento di coesione interna e soggetto di discorsi retorici di politica estera. 

È proprio nell’autunno del 2005, nel momento in cui il negoziato appariva compromesso e l’iniziativa europea priva di seguito, che la diplomazia italiana ha condotto una serie di colloqui informali. Secondo un articolo apparso su Asia Times, il 7 settembre 2005 dal titolo Iran Knocks Europe Out, le autorità iraniane facevano pressioni sui Paesi non presenti ufficialmente nel negoziato perché presentassero proprie proposte. Il governo italiano sarebbe intervenuto presso mediatori russi sostenendo iniziative alternative. Ciò avrebbe spinto il presidente russo, Vladimir Putin, ed il ministro degli Esteri, Sergey Lavrov, a presentare la nota proposta russa: permettere all’Iran di arricchire l’uranio in territorio russo. Questo attivismo diplomatico dimostrerebbe l’interesse italiano di entrare a far parte ufficialmente del negoziato sul nucleare iraniano sostenendo nuove concessioni. 

Quando le promesse non si sono trasformate in fatti
Anche nei colloqui in corso a Ginevra si parla di una possibile svolta nelle sanzioni all’Iran in merito al programma nucleare. Ma non è la prima volta. Nel 2006 era già possibile trovare un accordo e l’Italia svolgeva un ruolo determinante. Allora c’è stato il primo deferimento dell’Iran al Consiglio di sicurezza dell’Onu (febbraio 2006) e l’insediamento del governo di Romano Prodi. Il 31 luglio 2006, il Consiglio di sicurezza dell’Onu ha approvato la risoluzione 1696 che chiedeva all’Iran di cessare l’arricchimento dell’uranio, facendo richiamo al capitolo VII (art.41) della Carta Onu, che prevede la possibile imposizione di sanzioni. Un’importante novità veniva dalle dichiarazioni degli Stati Uniti. Anche allora, Washington si diceva pronta al negoziato diretto con Teheran ponendo come precondizione la sospensione dell’arricchimento dell’uranio. Nonostante un negoziato diretto tra le parti avrebbe costituito un vero segno di discontinuità, non erano chiare le concessioni che gli Usa erano disposte a fare alle autorità iraniane.

Negli stessi mesi il governo Prodi ha mostrato insofferenza per l’esclusione dell’Italia dalle iniziative negoziali. Sono stati così intensificati gli incontri bilaterali. Il ministro degli Esteri Massimo D’Alema ha incontrato due volte Ali Larijani, capo negoziatore iraniano, varie volte il ministro degli Esteri iraniano Manouchehr Mottaki. Allo stesso tempo, il presidente del Consiglio Romano Prodi ha incontrato Larijani e ha avuto un colloquio con il presidente iraniano Ahmadinejad il 20 settembre 2006 alle Nazioni Unite. 
I due politici italiani si sono espressi, poi, a sostegno dell’iniziativa negoziale dell’Ue, guidata da Javier Solana, che aveva accompagnato i colloqui del gruppo di contatto sin dalla sua formazione e che ha acquisito, come Alto rappresentante per la politica estera dell’Unione europea, la funzione di unico interlocutore europeo nelle ultime fasi negoziali. Inoltre, secondo fonti diplomatiche francesi, l’Italia ha partecipato inviando emissari all’incontro 5+1 (i cinque membri del Consiglio di sicurezza e la Germania) del 7 settembre 2006 a Berlino. Il ministro degli Esteri D’Alema ha partecipato anche all’incontro del 20 settembre a New York del 5+1 trasformandolo di fatto in 5+2.
 
A questi elementi bisogna aggiungere i continui colloqui che l’ambasciata italiana a Teheran teneva con i capi negoziatori e le principali autorità iraniane. L’iperattivismo delle autorità italiane chiariva la posizione da protagonista che l’Italia avrebbe voluto avere nei negoziati. Roma, nel caso in cui fossero state imposte sanzioni all’Iran per la questione nucleare, avrebbe avuto un danno economico rilevante e si sarebbe allontanata da un Paese con cui aveva buoni rapporti e a cui, mai, neppure negli anni della rivoluzione, aveva negato il suo supporto. Il governo italiano aveva l’interesse che ciò non avvenisse e possedeva gli strumenti per sostenere nuove proposte e convincere le autorità iraniane a dare un segno di discontinuità in quella fase critica.

Ma con l’inasprimento delle sanzioni all’Iran e l’avvento del terzo governo di Silvio Berlusconi, il ruolo italiano nel negoziato è stato completamente azzerato. In particolare, le dichiarazioni contro il governo di Mahmoud Ahmadinejad durante la visita di Berlusconi a Gerusalemme del gennaio 2010 hanno provocato l’assalto da parte di decine di affiliati alle forze paramilitari, basiji, alla sede diplomatica italiana a Teheran.

Ora però, con l’avvento di Hassan Rohani, il riavvicinamento Usa-Iran e l’intenzione espressa da Letta a New York, si potrebbe forse aprire finalmente un nuovo spazio per l’Italia nel tavolo negoziale sul programma nucleare iraniano.  

Twitter: @stradedellest