Il minimalismo di Saccomanni: meglio poco che niente

Cosa c’è dietro le gaffe sulla crescita

Ha ragione Fabrizio Saccomanni o ha ragione Enrico Letta? O forse tutti e due: mancano i soldi per non pagare l’Imu sulla prima casa (circa 2 miliardi e mezzo di euro), però l’imposta verrà comunque abolita. La ragione economica contro la ragione politica; il poliziotto cattivo e il poliziotto buono. Può darsi che sia così e questa comunque è la versione più o meno ufficiale. Certo, fin dalle prime mosse del governo il ministro dell’Economia ha tirato da un lato, il Pdl e una parte del Pd dall’altro (Renato Brunetta e Stefano Fassina sono sostanzialmente d’accordo sulla politica fiscale). Saccomanni era stato scelto per mediare, placare, sopire, anche grazie al carattere amabile e spiritoso con il quale copre una determinazione nelle scelte di fondo. Doveva garantire Mario Draghi del quale è amico di lungo corso, prima ancora che le forze politiche italiane. E ha sempre contato sull’appoggio di Giorgio Napolitano che lo stima e l’avrebbe visto volentieri sulla poltrona di governatore della Banca d’Italia (era il candidato di Draghi) se non si fosse impuntato Giulio Tremonti che sosteneva Vittorio Grilli, mentre Lorenzo Bini Smaghi si inseriva come terzo incomodo. E’ stato scelto Ignazio Visco e per Saccomanni il posto di ministro è diventato anche un risarcimento. Ma forse nemmeno lui, che pure è un grand commis esperto e stagionato, avrebbe mai immaginato di finire come San Sebastiano trafitto da ogni parte. E’ solo colpa dei partiti divisi e confusi o dei gruppi di pressione famelici che assaltano la diligenza? Ha commesso degli errori anche Saccomanni; e quali?

Il ministro non si era presentato solo come il cerbero del 3%. Il suo obiettivo era non imporre nuove tasse (per la prima volta in cinque anni) e puntare su una riqualificazione della spesa, riducendo quella corrente e rafforzando quella in conto capitale, pur nell’ambito delle limitate risorse disponibili. Per questo, bisognava far decollare una spending review da tanto tempo promessa e sempre fallita. Saccomanni ha dato prova di decisionismo cambiando i vertici del ministero: un direttore generale che arriva dalla Banca Mondiale come Vincenzo La Via, un ragioniere generale dalla Banca d’Italia con Daniele Franco che rimpiazza Mario Canzio cresciuto “a bottega” con 41 anni di esperienza alle spalle (è stato un addio polemico il suo) e infine l’innesto di un commissario per tagliare la spesa dal Fondo Monetario Internazionale: Carlo Cottarelli, appena insediato. Insomma, una vera e propria soluzione di continuità, segno netto di cambiamento.

La luna di miele, però, è durata poco. I vincoli politici (con il Pdl durissimo sulla trincea dell’Imu) e quelli economici hanno preso il sopravvento, così è cominciata la tattica del rinvio: prima ad agosto, poi a settembre, poi a legge di stabilità cotta e mangiata, con il risultato che siamo a novembre e non si sa ancora, al di là delle chiacchiere, se si dovrà pagare l’Imu sulla prima casa. Intanto si scopre che la nuova imposta sui servizi costerà ai contribuenti più della vecchia. L’Iva è aumentata al 22%, una quota superiore a quella tedesca che certo non favorisce il recupero di competitività: l’Imposta sul valore aggiunto, lo dice la parola stessa, non si paga sulle cose, ma anche sulla fornitura di servizi e sul lavoro dei liberi professionisti, mentre il popolo delle partite Iva ormai si è esteso anche a una quota di lavoro flessibile che una volta era lavoro dipendente. Il sollievo sulle buste paga ammonta a meno di 14 euro, per un vero taglio al cuneo fiscale non c’è spazio, se ne parla l’anno prossimo, quando saremo in ripresa.  

Già la crescita. Si sa che verrà (tutto finisce, tutto scorre), ma non si sa bene il quando e il quanto. Saccomanni l’aruspice l’aveva già vista arrivare in ottobre, ma è stato smentito prima dall’Istat, poi dall’Ocse, infine dai fatti. Secondo le stime ufficiose il terzo trimestre ha fatto registrare ancora un meno 0,1 e il quarto dovrebbe scavalcare lo zero per la prima volta dal 2008. Quanto alle previsioni, per il governo l’aumento del prodotto lordo nel prossimo anno supererà sia pur di poco un punto percentuale, per l’Istat e per la Ue invece toccherà un modestissimo 0,7%. Il ministro dell’Economia sostiene le proprie ragioni: gli statistici sottovalutano l’impatto di alcuni fattori importanti: il pagamento dei crediti della pubblica amministrazione verso le imprese, gli stimoli all’edilizia che, sia pur piccoli, spingono un settore chiave nel quale già s’intravede una svolta ciclica, e i margini per gli investimenti in infrastrutture consentiti dalla fine della procedura d’infrazione. Conditio sine qua non, ovviamente, è il rispetto della linea Maginot: se si supera il 3% finiscono anche gli effetti positivi della politica monetaria che ha consentito sostanziosi risparmi sugli interessi, quindi sul servizio del debito.

Il “povero Fabrizio” come lo chiamano ormai gli amici, pattina su un ghiaccio sottilissimo. E tuttavia proprio chi lo ha sempre stimato si aspetta qualcosa in più. Uno scatto di reni. Un colpo di frusta. Draghi, nell’annunciare il taglio dei tassi ufficiali di riferimento, ha insistito sul fatto che l’Unione europea non avrà una vera ripresa se i paesi deboli non imboccheranno in modo deciso la via delle riforme. Quali? L’Italia ha compiuto una riforma coraggiosa, quella delle pensioni, ma è rimasta a mezza strada nel mercato del lavoro. A differenza dalla Spagna che si è mossa in modo molto più radicale seguendo il modello tedesco. Dunque, è evidente che occorre mettere mano a un cambiamento molto profondo, dai contratti al welfare, dal licenziamento all’indennità di disoccupazione, mettendo fine alla anomalia della cassa integrazione in deroga e straordinaria. La Cig serve per tamponare crisi congiunturali e accompagnare la ristrutturazione, non per salvare imprese decotte. Per questo ci vogliono altri strumenti. Invece, saggia prudenza e colpevole debolezza hanno indotto i governi a usare questo ammortizzatore sociale in modo improprio, piuttosto che cambiare le cose. Ora, e tanto più se davvero il ciclo economico si sta invertendo, è arrivato il momento di compiere scelte radicali. Ciò vale anche per l’insieme delle politiche volte ad aumentare la competitività del sistema (fuor di metafora si tratta di dare uno scossone ai servizi pubblici e alla macchina dello stato, sia centrale sia periferica).

Un altro snodo chiave è il credito. La Bce continua ad aiutare le banche (con l’opposizione della Bundesbank) le quali comprano titoli di stato (su questo la Buba ha ragione) anziché prestare alle imprese. La via maestra per spezzare il circolo vizioso è far ripartire la domanda. Ma non basta. C’è bisogno di alcune operazioni straordinarie per ripulire le banche dai crediti inesigibili (quelle italiane), dai titoli marci (quelle francesi e tedesche), dall’eccesso di derivati (quelle tedesche). Saccomanni potrebbe intanto studiare la soluzione per il mercato italiano. 

Compiti da far tremare i polsi che non spettano certo al ministro soltanto. Tuttavia, lui non è il ragioniere dello stato, deve dare le linee strategiche della politica economica (non solo quella fiscale). Ecco, questa strategia finora non è apparsa chiara. La filosofia del ministro è in qualche modo minimalista: meglio poco, ma meglio. Non ha tutti i torti se mette in guardia dalle fughe in avanti che rischiano di mandare in frantumi la fragile cristalleria Italia. Tradendo il proprio disagio e il senso di precarietà che attanaglia lui come l’intero paese, si è lasciato sfuggire che non vale la pena darsi troppo da fare per un governo destinato a cadere fra pochi mesi. Una gaffe o piuttosto una verità dal sen fuggita. Tuttavia, Saccomanni può cominciare un lavoro che va fatto comunque, a prescindere da chi sarà il suo successore. Non solo perché lo chiede Draghi, ma perché lo impone la realtà. Senza libri dei sogni, anzi con il pragmatismo romano che lo caratterizza, il ministro potrebbe richiamare i partiti, i sindacati, i gruppi di pressione alle responsabilità di ciascuno dettando un’agenda per la ripresa e vincolando la politica economica per il prossimo futuro. Altro che san Sebastiano, diventerebbe un puntaspilli? Non proprio, perché molte delle frecce tornerebbero indietro contro chi le ha lanciate. Chi non vuole le riforme si assuma le proprie responsabilità con nome e cognome, davanti agli elettori, alla Ue, alla Bce, ai mercati.

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