Confessioni di un sognatore a occhi aperti

Dal New Yorker al cinema

Ci sono storie che iniziano e finiscono nello spazio di un paio di fermate della metropolitana. E poi non è nemmeno detto che finiscano davvero, magari se ne stanno in latenza fino al prossimo viaggio in treno, o alla prossima passeggiata notturna. Ci sono fasi della vita, irreali e emotive, che sbocciano e appassiscono solo per il tempo necessario a farci perdere l’autobus, a farci distrarre mentre attraversiamo la strada, a farci mancare il piano con l’ascensore. Ad alcuni non fanno né caldo né freddo, li sentono appena, altri li avvertono vividi e forti. Io sono uno di questi.

Se penso alle volte che ho saltato la fermata del treno, che sono stato costretto a chiamare qualche amico o qualche familiare per farmi venire a prendere alla stazione successiva per essermi perso dietro a un futuro possibile, a un presente idilliaco o a un passato che sarebbe potuto essere diverso, rimango perplesso. Non è incredulità, ma nemmeno rimorso. Sono molto affezionato ai miei sogni ad occhi aperti. Ce ne sono alcuni che vanno avanti da anni, hanno assunto una forma di realtà parallela, di piano alternativo, e si sono popolati di personaggi inesistenti o visti soltanto passare. Niente di spettacolare, nessun atto eroico, ma una piccola, calda, rassicurante vita regolare che occasionalmente sfocia nell’idilliaco. Per molti – lo dico più che altro per rassicurarmi riguardo alla mia salute mentale, ma esistono degli studi in proposito – i sogni ad occhi aperti sono una valida forma di terapia e un ottimo allenamento alla sopportazione delle piccole delusioni quotidiane.

La storia di Walter Mitty si intreccia profondamente con il suo piano alternativo, anzi lo amplifica e moltiplica considerevolmente per essere lo stesso Walter Mitty un prodotto di fantasia, creato per portare alla luce i sogni a occhi aperti di James Thurber, lo scrittore che lo ha inventato. Mitty è un uomo qualunque, la cui fervida immaginazione lo eleva allo stato di “distratto” e lo porta attraverso scenari eroici a fare della sua vita qualcosa di eccezionale, degna di essere raccontata. Ha fatto la sua prima apparizione al mondo nel 1939, tra le pagine del New Yorker, periodico col quale Thurber collaborava ormai da più di un decennio dopo essere entrato nello staff permanente come editor. Il racconto – è bello che sembri che tutta la letteratura in voga in questo 2013 che sta per finire sia in forma di racconto piuttosto che di romanzo – , che sarebbe presto diventato un classico della comicità, tanto da venire riproposto in vari adattamenti più volte nel corso dei successivi sessantacinque anni, si chiamava The Secret Life of Walter Mitty e venne ripreso per la prima volta, leggermente cambiato rispetto al New Yorker, nel 1942 in My World and Welcome to It. Cosa interessante: questo è lo stesso titolo originale della serie televisiva conosciuta (poco) in Italia come Il fantastico mondo di Mr. Monroe, liberamente ispirata all’attività di Thurber come vignettista, sempre sul New Yorker. Ma cercherò di non divagare, visto che il soggetto si presta di per sé ai voli pindarici. 

Il Walter Mitty del racconto originale è cambiato molto nel corso degli anni e delle trasposizioni. Un cambiamento dovuto alla necessità, sembrerebbe, di adattarsi a un pubblico che andava raffinandosi o ingrassandosi a seconda del momento storico. Il Mitty che durante la Seconda Guerra Mondiale veniva assunto come mascotte dai soldati americani che combattevano in Europa e nel Pacifico, era un Mitty diverso dall’impiegato con la testa tra le nuvole del ’39. Il primo era una persona che sceglieva di sognare con l’obiettivo segreto di non uscire mai dalle proprie fantasticherie, e ricalcava un Paese ancora piegato dalla grande depressione, alla ricerca di una fantasia che fosse migliore della realtà. Quello del ’42 era un Mitty determinato, che avrebbe voluto aggrapparsi ad altro ma svolgeva il proprio dovere con fierezza, come le truppe al fronte, come i civili impegnati nel supporto a distanza. 

Poi è venuta la prima trasposizione cinematografica, nel 1947 – il momento in cui Walter Mitty ha smesso di essere un personaggio di Thurber ed è diventato una maschera della società visiva. Fuori dalla depressione, fuori dalla guerra, immersi nel panorama grandioso della ripresa. Il protagonista era Danny Kaye e interpretava un Mitty impiegato per una casa editrice, il film, che nella sua versione americana porta lo stesso nome del racconto, si chiama Sogni proibiti. Le differenze rispetto all’originale in questo caso sono molto evidenti, solo alcuni dei precedenti sogni di Mitty vengono riportati e in compenso aumentano le tentazioni – una su tutte: le donne ad ossessionarlo passano da una a tre, indice di una società che cammina già sul baratro dello spreco. Il pubblico del ’47 è un pubblico che si aspetta che i sogni ad occhi aperti si avverino da un momento all’altro, che ha davanti un panorama roseo e un ampio cielo azzurro. Nessuna nuvola all’orizzonte. 

L’ultima incarnazione di Mitty – a distanza dell’essere entrato nell’immaginario collettivo statunitense con un adattamento teatrale, che sostanzialmente ricalca il primo film, un musical, una sindrome e un canzone di Ian Dury – quella che porta il volto di Ben Stiller e rischia di consacrarlo alla comicità raffinata come Everything Must Go ha elevato Will Ferrel a interprete di Carver senza macchia, è ancora diversa. Se il Mitty originario era l’umanizzazione di un’immaginazione latente, pronta a fare fuoco se chiamata alla realtà, quello di Stiller inizia come un archetipo e piano piano si trasforma nel suggerimento di provare a vivere fuori dal sogno, per un pubblico che ha trovato nella realtà virtuale il proprio modo di evadere dalla routine di tutti i giorni chiamando a raccolta il minimo sforzo immaginativo. L’ultimo Mitty, quello che ha debuttato nelle sale cinematografiche il 19 dicembre col titolo I sogni segreti di Walter Mitty, è l’invocazione di un risveglio alla realtà, la cui morale potrebbe essere – e qui oso – riassunta in un «tornate indietro, che la vostra immaginazione è sofisticata e rischia di deviarvi». 

Il sogno ad occhi aperti è un tratto essenzialmente umano e occupa un terzo delle nostre vite, rileva David Fear sul New York Times. Già Sigmund Freud nell’Interpretazione dei sogni, testo fondamentale del 1899, parlava del fantasticare come di un «atto di auto-realizzazione», specificando poi che potrebbe precedere una forma di isteria, ma lo diceva spesso e un po’ per tutto. James Thurber, nel corso di un’intervista in cui gli veniva chiesto di parlare del suo personaggio più noto rispondeva: «[è] ogni persona che io abbia mai incontrato. Quando il racconto è uscito sul New Yorker [ventidue anni prima dell’intervista] mi hanno scritto sei persone da varie parti del Paese, tra le quali un dentista di Des Moines, chiedendomi come avessi fatto a descriverli tanto bene. Ognuno di loro era Walter Mitty». L’abilità di «ricostruire alla perfezione il funzionamento della mente umana, tanto da confondere il racconto fantastico con le fantasticherie di ognuno di noi» è poi sottolineata in The Man who was Walter Mitty, biografia di Thurber scritta nel 2000 da Thomas French. 

Il sogno è dappertutto, e così comune da essere assunto come parte integrante delle giornate di ognuno. Sta poi al soggetto essere disposto o meno ad assecondare la fantasia, seguendola, lasciandola evolvere, costruirsi, espandersi come un universo neonato senza però alcun rischio di implosione.  

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