È morto Ariel Sharon, era in coma dal 2006

Lutto a Gerusalemme

L’ultima immagine dell’undicesimo primo ministro d’Israele ha coinciso con la routine di un mantenimento terapeutico: un corpo biologicamente vivo, ma inerte. Così ridotto da un’emorragia cerebrale, nel gennaio 2006. Una presenza invisibile, ma ostinata come un avvertimento: restare attaccati a quella terra. Sharon è stato estremo in tutto: ha rappresentato nel modo più ingombrante il mestiere delle armi del suo Paese, e, alla fine, anche ridotto all’impotenza totale, è restato lì per otto anni, come uno spirito difficile da rimuovere. Una specie di dybbuq eterodosso e ufficiale di uno Stato che, a quasi 66 anni, è un organismo ormai anziano, o post-sionista (nel gergo della sua storia) e che subisce da sempre un vizio di forma (gli viene rinfacciata la nascita da una parte del mondo). Contro questo, e nevrotizzando una sua idea-cardine sulla vita e sulla sicurezza d’Israele, Ariel Sharon ha perfezionato una delle tante attitudini descritte nelle sue memorie: «Per fortuna c’è il lavoro. Ci si può perdere, lavorando».

Lo ha fatto consumandosi in diversi caratteri: l’estro militare, lo spietato disprezzo verso il nemico, l’indisciplina nei confronti delle gerarchie, una visuale ideologica estrema. Ma anche una certa capacità laica, o politica. Nel decennio precedente al colpo cerebrale che lo avrebbe steso era l’ex generale, il premier-simbolo della destra politica, il capo del Likud, che variava la scena come andava a lui, e in questi modi. Invadendo l’Haram-el-Sharif, cioè lo spiazzo delle due sacre moschee di Gerusalemme: massiccio, con gli occhiali neri, con un cordone di guardie del corpo (una passeggiata padronale e blasfema, che avrebbe messo al mondo la seconda Intifada palestinese). Sgomberando, con l’esercito, le colonie israeliane addossate a Gaza: una rassicurazione (soprattutto agli americani) sull’immagine d’Israele e su una sua controllata flessibilità. Uscendo dal Likud, e creando il partito Kadima: una trovata “centrista”, quasi all’italiana, per mantenersi capo incontestabile (e irripetibile) di una formazione tutta sua. In un quadro politico notoriamente mobile, frammentato, consono alle coalizioni, alle rotture, e alle ricongiunzioni obbligate dai risultati elettorali.

Arik (questo il soprannome) durante la Hannukah del 2005 (Afp)

Personalmente, Sharon è stato dato per scomparso diverse volte: si parla di carriera pubblica, militare o politica. Dopo ogni sua morte apparente, è rinato per star meglio: si parla di un israeliano particolarmente rozzo e leggendario, a cui la storia interna del suo Paese, un po’ ciclotimica, ha offerto un posto sempre più alto. Nel 1983, il giornalista Uri Dan aveva avvertito i suoi concittadini, con una ormai celebre profezia: «Quelli che prima della guerra del Kippur (del 1973, ndr), non hanno voluto Sharon come capo di Stato Maggiore, l’hanno poi avuto come ministro della Difesa. E chi oggi non lo vuole più come ministro della Difesa, se lo ritroverà un giorno come primo ministro». Lo sarebbe diventato nel 2001 (successore del laburista Ehud Barak) dopo aver impilato, nei vent’anni precedenti, una serie di dicasteri fondamentali, in tutti i governi Likud (Begin, Shamir, Netanyahu). All’Agricoltura, all’Industria, all’Edilizia, all’Energia e alle Risorse Idriche, agli Esteri. Popolare, detestato, temuto, ma sempre utilizzabile e utilizzato. Come la faccia e il corpo d’Israele che comunque non mollava niente al nemico. Che promuoveva i coloni e l’assegnazione dei pezzi di terra araba da colonizzare. Che agiva come un caterpillar propagandistico contro ogni disgelo psicologico, oltre che pratico: a Oslo, a Washington, a Camp David. Diventato premier, si era visto arrivare questo commento (celebre, anche lui) dal filosofo israeliano Avishai Margalit: «È come se avessero messo un piromane alla testa di una squadra di pompieri». Una delle sue forze è stata quella di essere agile: contro l’evidenza del suo fisico, allargato dalla mezza età in poi. In questo senso: ha rappresentato, nelle forme più primitive, alcuni cambiamenti (spontanei o obbligati) della storia — o almeno di certe storie — d’Israele. Come uno specchio fra i meno attraenti dove specchiarsi, ma che comunque riflette delle immagini, nel loro passare e modificarsi. E come un’immagine — o una persona inconfondibile — che in quei racconti, e in quella storia, ci mette del suo, sempre all’eccesso. 

Foto Afp

Ai tempi del mandato inglese sulla Palestina, quando Israele non esisteva, ma era già una società — urbana e agricola — proverbialmente solidale, Sharon adolescente scriveva di se stesso così: «Mi sentivo ed ero isolato». Era nato e cresceva a Kfar Mallal, una comunità agricola (o moshav) a nord di Tel Aviv: si chiamava ancora Ariel Scheinermann, figlio di bielorussi, con una madre colta, nostalgica della vita nella diaspora e che non parlava quasi l’ebraico. Aveva seguito nell’aliyah il marito, un agronomo sionista: in quel moshav, la loro casa teneva le distanze dalle altre con un robusto steccato. Ariel non avrebbe mai avuto nessuna relazione con i vicini, non andava nelle loro case. Dentro quella società collettiva, il suo convintissimo sionismo si perfezionava come una forma di nazionalismo introverso e, potenzialmente, invadente. Per una parte d’Israele, sarebbe diventato un modello di sicurezza: psicologico, oltre che politico. La storia israeliana, e i suoi passaggi, coincidono anche con un divenire di pubbliche relazioni: col mondo, soprattutto constatando il rifiuto e la volontà di distruzione di una sua parte. Per tutta la vita, l’ex adolescente “isolato” Sharon è stato il contrario del tatto, anche con gli alleati naturali, gli americani. Quasi come se il suo fisico eccessivo giocasse come un’ulteriore forma propagandistica. In questo senso, è stato inversamente speculare a Yasser Arafat, il nemico infinito: uno showman non attraente, ma mediatico, incollato a un sorriso inamovibile, e al gesto delle dita a “V”, inventato da Winston Churchill per promettere la vittoria. Per Sharon, la vittoria sull’isolamento sarebbe stata realizzata nell’esercito: dove la relazione è obbligata, soprattutto quando si comanda dei soldati in nome dell’assicurazione alla vita del proprio Stato, e lo si fa violentemente nevrotizzandola.

Nei primi trent’anni della vita d’Israele (1948-1978), la carriera militare di Ariel Sharon ha coinciso col massimo di pubblicità positiva di quello Stato: Israele era un unicum — democratico, socialista, liberale, figlio della Shoah — circondato, a rischio di distruzione, che vinceva tutte le guerre. Nel 1948, nel 1956, nel 1967, e, in extremis, nel 1973. Il mestiere delle armi era difensivo, per la vita. Tutto vero; sostanzialmente lo è ancora.

Foto Afp

Sharon comandante di paracadutisti, poi generale e stratega, ha imparato a metterci qualcosa di offensivo, di oltre il limite: quel genere di “sproporzione”, che negli ultimi trent’anni viene generalmente imputata a Israele, e che si è rafforzata almeno come difetto d’immagine, o di relazioni. Sia pubbliche che private. Negli anni Cinquanta, a capo della brigata 101 —  paracadutisti, creata da Moshe Dayan —  Sharon ha coltivato l’eccesso sul campo, e il procedere autonomo, anche contro le gerarchie militari. Il massacro di Kibya, un villaggio cisgiordano (69 persone), e la dinamite alle loro case, faceva protestare l’Onu e indignare molti israeliani della società civile. La marcia per impadronirsi del passo di Mitla, nel Sinai egiziano durante la guerra del ’56, veniva decisa e attuata senza informare lo Stato Maggiore. Nella guerra dei Sei Giorni, poche operazioni, ma ancora classificate di “difesa segreta”. Dopo, nel 1969, l’incarico di mantenere l’ordine a Gaza: con massima “efficacia”, realizzata e accertata. Amava dimostrare, anche con le parole: «Un pugno di uomini determinati e coraggiosi può venire a capo di qualsiasi nemico». In tempi diversi, nel 2002, il 28 marzo, lanciando contro Ramallah carri armati e bulldozer blindati, proclamava: «Dobbiamo fare una guerra senza compromessi per sradicare questi selvaggi, e smantellare le loro infrastrutture».

Proteste nel 2005 contro Sharon per l’abbandono delle colonie nella striscia di Gaza (Afp)

Fra le gerarchie dell’esercito era pieno di disistimatori decisi a bloccargli la strada verso lo Stato Maggiore: le sue dimissioni, nel 1972, lo inauguravano, subito dopo, come politico, e fondatore del partito Likud, insieme a Ezer Weizman (futuro presidente dello Stato, due volte). L’egiziano Anwar Sadat che nel 1973 scatenava, a sorpresa, la guerra del Kippur (e quasi la vinceva), provocava il ritorno di Sharon alle armi, e, grazie a lui, il ribaltamento del risultato: con quella fulminea strategia di accerchiamento della terza armata egiziana sulla sponda occidentale del canale di Suez. Anche lì, una decisione quasi autonoma, fuori canone. Da ministro della Difesa al governo (del premier del Likud Menachem Begin), ragionava come un militare col suo dogma della sicurezza. In quel 1981 — l’anno dell’omicidio di Sadat e del trionfo di Ronald Reagan — aveva l’ossessione del Libano: lì c’era Yasser Arafat, col suo quartier generale, da lì partivano gli attacchi palestinesi (circa 15 mila armati su un totale di 300 mila) contro i confini settentrionali d’Israele. Bisognava entrare con l’esercito, sradicarli, catturare Arafat, e impiantare un governo libanese, cristiano-maronita e amico. Era l’operazione “Pace per la Galilea”, coordinata direttamente da Sharon, e che produceva almeno tre fatti. Un precedente di “guerra libanese” che avrebbe avuto un secondo tempo nel 2006. Una responsabilità connivente dei soldati israeliani nel massacro di circa 3 mila civili palestinesi, attuato dalle milizie falangiste nei campi di Sabra e Chatila. Una sorta di sipario strappato sull’immagine puramente difensiva d’Israele: cioè una rottura quasi irreversibile di un sistema di solidarietà, di pubblicità, e di relazioni, che aveva tenuto bene fino a quel momento. E che aveva (e ha in gran parte) basi e motivi reali. Una Commissione giudiziaria israeliana — la Commissione Kahan — avrebbe ritenuto Ariel Sharon «personalmente responsabile nell’ignorare il pericolo di un massacro, e per non avere preso misure appropriate per prevenirlo».

Sharon militare, nel 1982, in Libano

La conseguente morte politica (cioè le dimissioni) da ministro della Difesa, sarebbe stata, in prospettiva, una fine solo apparente per l’ex generale. L’ultimo, e il più perfezionato Sharon anni Novanta, ha fatto parte della quadreria più ostica dei premier israeliani: insieme al dispettoso e modesto Yithzak Shamir, e a Bibi Netanyahu, una volta definito “mentitore” da Barack Obama. L’ultimo Sharon vittorioso (primo ministro) è forse anche il più tragico: perché due tragedie gli hanno aperto la strada. L’omicidio di Yitzhak Rabin, e il fallimento della pace a Camp David, quella di Bill Clinton e di Ehud Barack, mandata all’inferno dal sorridente Yasser Arafat. La tragedia, o una delle tante della “questione” israelo-palestinese, resta intatta anche nell’interpretazione di un termine base: sicurezza. Il paradosso sta anche in un’attesa: aspettare che quel termine muoia biologicamente, per poter immaginare una pace decente.