Taccola“Electrolux ci ripensi, il suo diktat fa male a tutti”

Intervista a Maurizio Castro

Bocciate senza appello anche da chi per primo aveva chiesto a lavoratori e sindacati di tagliare i salari per mantenere la produzione di elettrodomestici in Italia. Le condizioni poste da Electrolux per non cessare del tutto gli investimenti italiani non vanno giù a Maurizio Castro, ex senatore del Pdl, già direttore delle risorse umane proprio nella Zanussi e poi Electrolux, fino a dieci anni fa, e attualmente commissario di Acc, società che ha rilevato alcune attività della stessa multinazionale svedese. Sotto accusa ci sono sia la volontà di chiudere lo stabilimento di Porcia sia la mancanza di qualsiasi forma di scambio in cambio dei sacrifici. Un approccio unilaterale che viene rigettato anche da un giuslavorista che nei giorni scorsi ha fatto discutere per le proposte fatte con il quartetto di saggi incaricato dall’Unione industriali di Pordenone (provincia in cui ricade Porcia) di individuare degli interventi che inducessero Electrolux a non delocalizzare.

Di questa troika fanno parte anche l’ex ministro ulivista del Lavoro, Tiziano Treu, l’ex presidente della Regione Friuli-Venezia Giulia, Riccardo Illy, e il presidente del Fondo italiano d’investimento, Innocenzo Cipolletta. I “saggi” avevano rimodulato molti istituti contrattuali, dai premi di produzione alle festività infrasettimanali, dagli orari di lavoro agli scatti di anzianità, dagli automatismi di inquadramento ai fondi sanitari integrativi, dalla partecipazione agli utili e al capitale alla formazione e all’outplacement, ottenendo il risultato di una riduzione del costo del lavoro per unità di prodotto del 20 per cento.

Poi è arrivata la doccia fredda di Electrolux. Le prime cifre dei sindacati – taglio dei salari da 1.400 a 700 euro; premi aziendali decurtati dell’80%; pause ridotte; festività non pagate; permessi sindacali ridotti della metà; scatti di anzianità bloccati – sono state in parte ridimensionate dall’azienda, che ha parlato di una riduzione del salario dell’8%, pari a circa 130 euro al mese. Ma è sembrata una risposta quantomeno parziale. 

Che idea si è fatto delle condizioni poste da Electrolux per mantenere tre stabilimenti in Italia?
Intanto non sono parse chiare a nessuno, tanto che Electrolux ha dovuto fare un comunicato notturno per ridimensionare quello che era stato detto ai sindacati. Funziona un modello di relazioni industriali se ci sono equivoci di questo tipo? Questa vicenda sconta di fondo un rattrappimento delle relazioni industriali del gruppo, che fino ai primi anni Duemila erano all’avanguardia. Nel merito la proposta non è accettabile. Traspare in modo quasi grossier l’intenzione di chiudere Porcia, che è lo stabilimento più organizzato ed efficiente di tutti, che ha funzionato bene per decenni. Se chiude quello, presto chiuderanno gli altri. È una falsa premessa. Questo non può essere accettato né dal governo né dalle organizzazioni sindacali. Cito non a caso per primo il governo perché quello del “bianco” è un settore che ha visto l’Italia primeggiare in Europa per decenni. Fino al 2008 erano prodotti ancora 36 milioni di unità, scesi oggi a 18 milioni, meno della Turchia. Se si perdess l’identità industriale, creata da persone come Zoppas, Borghi e Zanussi, in una maniera sciatta, sarebbe gravissimo.

Maurizio Castro, giuslavorista, ex senatore del Pdl ed ex direttore delle risorse umane di Electrolux

In cosa differisce la proposta di Electrolux da quella del vostro quartetto di saggi?
Non ci sono punti di contatto con il nostro piano. Cè una chiara differenza. Il nostro piano intendeva salvare tutta la produzione di elettrodomestici, anche quella a Porcia. Noi proponiamo di scambiare il sacrificio dei lavoratori con una forte iniezione di partecipazione. Abbiamo previsto, ad esempio, di creare una società di scopo, nella cui governance ci siano anche i sindacati, oltre che una partecipazione azionaria diffusa. A fronte dei sacrifici deve corrispondere un ingresso a tutto tondo dei lavoratori. Non è possibile un unilateralismo scaricato tutto sui salari. I lavoratori meritano di essere considerati non solo dei prestatori dopera, ma anche soci di lavoro. Cè bisogno di un cambio culturale, direi antropologico. 

Come pensa che finirà la vicenda?
Sono fiducioso, proprio perché il gruppo ha una tradizione consolidata di rapporti sindacali, di “buona cittadinanza” e di etica scandinava. Ha un gruppo dirigente saggio, prudente, realista, vederlo in una battaglia ideologica mi sembra difficile. Se si valorizzasse l’intero perimetro di interessi della famiglia Wallenberg, che conta aziende come Ericsson, Ab Sks, Abb, si può trovare un equilibrio più complessivo. Se siamo in grado, attraverso accordi sindacali, di offrire uno sconto di 5 euro sul salario orario, integrato da un robusto contratto di programma per finanziare la formazione e la ricerca; se a questo si aggiungesse un contributo della mano pubblica per altri 2 euro all’ora, ci sarebbe un risparmio sul salario di 7 euro all’ora, sarebbe conveniente per lazienda rimanere rispetto ai costi imponenti di una delocalizzazione. Abbiamo calcolato, da casi simili, che una delocalizzazione costerebbe 100mila euro a testa, per 4mila persone, a cui si aggiungerebbero i costi di chiusura degli impianti. In più nellUnione europea la forbice dei salari si dovrà chiudere, altrimenti che Europa è se spinge i Paesi verso un impoverimento generalizzato? Se fossi un manager svedese sarei tentato di restare in Italia. Il fondatore di Ikea, Ingvar Kamprad, ha detto più volte di essere convinto che nel Nord Est italiano ci sia un sedimento di saperi industriali preziosissimo. 

Lei è stato direttore delle risorse umane di Electrolux. Quali sono le responsabilità dell’azienda? C’è stata una gestione troppo verticistica che non ha valorizzato le competenze locali?
Non sono così sicuro di questo. Da esterno – da 10 anni – mi chiedo piuttosto come far coabitare una strategia di valorizzazione del marchi premium con le lavorazioni per le grandi catene di distribuzione come Ikea. Electrolux ha forse bisogno di rendere più consistente la sua strategia. Vuole diventare un collettore di marchi premium, e in quel caso ci sarebbero dei margini, magari con meno lavoratori, o scendere sulla fascia medio-bassa? In questo caso sì che i costi del personale contano. 

Ha seguito la vicenda Whirlpool? Il protocollo siglato con la Regione Lombardia può essere considerato un modello?
Certamente sì. È quello che ho chiamato lintegrazione pubblica dellaccordo tra le parti. Significa tagliare Irap e Ires, ma anche creare le condizioni ambientali migliori attraverso gli incentivi alla ricerca e alla formazione. Quella della Regione Lombardia è unopzione interessante. Dopo gli accordi di Indesit con il ministero dello Sviluppo economico e Whirlpool con la Regione Lombardia, perché Electrolux ha scelto una direzione diversa?

Qual è il suo giudizio sull’operato della politica nazionale e locale e dei sindacati?
La mia posizione è molto netta: se fossi una multinazionale non mi sentirei invogliato a dialogare con un interlocutore diviso e litigioso. Ricostruiamo un fronte comune con enti locali, Regione Veneto, Regione Friuli-Venezia Giulia e governo, almeno per il momento. Poi ci sarà tempo per ricostruire con inchieste le responsabilità di ciascuno. 

Perché un’azienda deve rimanere in Italia e non andarsene? 
Perché ci sono competenze industriali ancora formidabili. Se guardo al modo e ai tempi in cui viene realizzata una linea di produzione industriale in Italia e nel resto dEuropa, non ci sono paragoni. Si parla di minuti contro mesi. 

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