Viviamo in una regolamentazione fatta di cifre. Gli stati europei devono rispettare il vincolo del 3% del deficit e dovrebbero avere un debito inferiore al 60% del PIL. Le banche devono accantonare l’8% di capitale a fronte delle attività finanziarie ponderate per il rischio. Gli enti locali non possono sforare il patto di stabilità, e in più per farlo non possono alzare i tributi oltre percentuali prefissate.
Insomma, viviamo sempre più in una società di vincoli quantitativi, venendo da un passato in cui l’unico vincolo quantitativo cui eravamo abituati era il limite di 50 chilometri orari nei centri urbani. Parliamo di società, e non solo di economia, perché la moda del limite quantitativo ha permeato le attività più varie, e ognuno è testimone di esempi nel proprio ambito di attività. Io stesso ho documentato nel mio blog che anche aprire un corso di laurea ha i suoi requisiti quantitativi: quattro docenti per anno, un aula, e così via.
Se non bastasse, poi, i limiti quantitativi si mischiano e si sovrappongono nel tempo e nello spazio: limiti che variano per periodi transitori e che vengono poi modificati in corsa, e limiti imposti da autorità diverse. Altro che lacci e lacciuoli. Nella società moderna, prendere una decisione e attuarla presenta la stessa complessità di arrivare alla teca di una pietra preziosa scavalcando, sguisciando e strisciando tra una rete di allarmi a raggi laser. La cosa positiva è che se riesci a combinare qualcosa ti senti come Diabolik, anche se dici una frase che nel mio fumetto preferito non ricordo di aver mai letto: “ho fatto i compiti a casa”.
La cosa negativa è che tutto ciò ingessa le società dell’occidente, le soffoca e ne rallenta la crescita. Un campo di ricerca interessante, che forse esiste già, ma che se non esiste dovrebbe essere creato, è una misura della complessità della regolamentazione quantitativa. Se questa misura esistesse ritengo che rileveremmo facilmente una correlazione negativa tra complessità e crescita, e che riconosceremmo nei vincoli quantitativi una delle caratteristiche distintive delle società mature. Società che sentono il peso degli anni, che si aiutano con tutori e bastoni e che non possono allungare il passo più di tanto.
Preso atto della loro presenza, i vincoli quantitativi sollevano domande a diversi livelli di profondità. Alcune, pur molto importanti, sono di superficie e riguardano come sono fatti i vincoli: sono messi sulle variabili giuste? I numeri sono realistici? E perché quei numeri e non altri? E poi: si possono violare i vincoli? Le sanzioni sono giuste? Ma sotto queste domande di superficie, ovviamente essenziali perché ci accompagneranno per tutta la nostra vita, c’è una domanda di profondità, una domanda vecchio stile sui destini di lungo periodo della nostra convivenza civile: se questo tipo di regolamentazione sia una condizione necessaria di una società matura, o se sia invece un periodo di transizione verso un tipo di regolamentazione diverso, che invece di essere basato su limiti, sia basato su incentivi a “fare la cosa giusta”. In termini più tecnici, la domanda è se i nostri posteri potranno vivere una società, e in un’Europa, “incentive compatible”.
La regolamentazione del nostro tempo, basata sui limiti quantitativi, ha il problema che i numeri sono cose taglienti come coltelli. Discriminano sul filo di una lama chi sta fuori e chi sta dentro le regole. Declinando il concetto nel caso europeo, se sei un pelo sopra il 3% sei fuori delle regole, anche se non sei molto peggiore di chi sta un pelo sotto. Se poi le sanzioni sono in somma fissa, o comunque non significativamente legate allo sforamento, generano un chiaro incentivo a “sbracare” di più se non lo si può evitare. Quando facevo il bancario e sentivo di non avere la “gamba” per arrivare entro l’orario, smettevo di correre e mi facevo cappuccino e brioche: tanto sforare di un secondo o quindici minuti aveva lo stesso effetto.
Nel dibattito sullo sfondamento del limite del 3% di questi giorni manca un’indicazione quantitativa di quanto dovrebbe essere per rimettere in moto la macchina e mantenerla su un sentiero sostenibile. È un po’ come il film sull’Apollo XIII che in crisi di carburante riaccende i motori per un periodo breve, tenendo la terra nel finestrino, per aggiustare la rotta e farsi riportare a terra dalla forza di gravità. Il nostro problema è che a Houston non c’è una scienza esatta. Il moltiplicatore, cioè quel parametro che mette in relazione le politiche di deficit spending con la crescita del PIL, è per gli economisti quello che per i fisici è la forza di gravità. La differenza tra le due discipline è che oggi gli economisti riconoscono di non essere in grado di misurare il moltiplicatore, mentre grazie a Dio la forza di gravità si lascia misurare e ci tiene ancora con i piedi per terra con la massima precisione. Oggi, il rischio di riaccendere la macchina e sforare il vincolo è quello di prendere la via dello spazio invece che la strada di casa. Per questo è senz’altro da condividere l’opinione che la mossa dello sfondamento debba essere affrontata con una cabina di regia, una programmazione e un controllo dei conti che devono almeno ricordare, se non emulare, la precisione della stanza di comando di Houston.
A rafforzare l’incertezza della risposta della navicella alla riaccensione del motore c’è il fatto che il vincolo, pur essendo un numero, non è uno strumento di precisione. Se mai si ridiscuterà il patto, qualcuno per favore sollevi la domanda che io mi pongo da anni. Perché il limite è stato posto sul disavanzo delle partite correnti, che include le spese per interessi, invece del saldo primario? Il saldo primario rappresenterebbe un vincolo più preciso, sotto il controllo dei governi e non sporcato dagli spiriti animali dei mercati. Assumendo che l’economia tipo dell’area euro abbia un rapporto debito/PIL del 60%, richiedere un avanzo primario positivo, e magari superiore a una soglia tra l’1% e l’1,5% sarebbe un indicatore riferito direttamente alla sostenibilità del debito, e metterebbe sullo stesso piano la Germania, dove i capitali cercano riparo in periodi di tensione abbassando i tassi, e tutti gli altri paesi. In alternativa, lo stesso risultato si sarebbe ottenuto sterilizzando il vincolo dallo spread e differenziandolo per il classi di debito. In questo caso, a noi sarebbe richiesto di tenere il surplus primario intorno al 2,5%.
Il vincolo del 3% è quindi un esempio di vincolo posto sulla grandezza sbagliata, e questo lo rende uno strumento naturalmente distorto dalle forze del mercato. Un vincolo più semplice ed equo, direttamente legato alla sostenibilità, avrebbe fatto giustizia anche dell’altro vincolo su cui poggia il patto di stabilità europeo: quello sul rapporto debito/PIL. Anche questo limite solleva molti quesiti di superficie, su come è stato fatto e sul suo significato di quel numero. Perché 60%? Alla tombola dei numeri regolamentari 60 è forse il numero della sostenibilità del debito? E magari 90 è la paura? Anche qui un semplice esempio smentisce la vulgata. Prendete due paesi uguali in tutto, se non per due numeri. Primo numero: uno ha un debito pari al 120% del PIL, l’altro ha il 60%. Secondo numero: uno ha investimenti nell’economia per il 60% del PIL e l’altro zero. E infine, siccome siamo in un’economia da libro di testo, i mercati finanziari sono efficienti.
In questo esempio entrambi i paesi hanno lo stesso rischio di fallimento. Poiché sono uguali, il primo avrà una somma di surplus primari attesi che è il doppio del secondo, e la metà di questi surplus primari sarà data dai dividendi attesi sulle partecipazioni nell’economia. In altri termini, il primo paese potrebbe rientrare nel vincolo del 60% semplicemente “privatizzando”, cioè vendendo i titoli di capitale in proprio possesso. Privatizzando, ridurrebbe lo stock di debito, riducendo della stessa somma i surplus primari attesi in futuro. Che la somma sia la stessa, è garantito dai mercati efficienti.
Questo esempio estremo, e da libro di testo, dimostra due cose. La prima: le privatizzazioni, anche se fatte senza svendere, non migliorano la sostenibilità del debito, e servono solo a rientrare nei limiti proposti dall’Europa. La seconda: 60% non è sostenibilità del debito, ma qualche cos’altro. L’esempio suggerisce che sia legato alla dimensione degli investimenti pubblici in economia. Questo esempio sembra confermare una congettura di cui mi ha parlato qualche tempo fa Giarda (l’ex ministro ora presidente del consiglio di sorveglianza della Bpm, ndr) in un breve scambio di battute, e cioè che il 60% fosse in realtà legato alla dimensione dell’intervento pubblico dell’economia ritenuto tollerabile dall’Europa. Su perché 60 e non un altro numero, Giarda aveva una spiegazione che non rivelo per non attribuirmela.
Insomma: i due numeri, 3% e 60% su cui è costruita l’Europa sono coltelli affilati che hanno difetti seri: uno ha il manico malfermo, l’altro non sappiamo se sia fatto per tagliare la carne o il pesce. Sorge spontanea la domanda se chi li ha forgiati, e scagliati, li sapesse veramente usare. Gli sherpa hanno fatto bene il loro lavoro? E, in subordine, gli sherpa sono stati ascoltati? La teoria del patto “stupido” di prodiana memoria suggerirebbe una risposta negativa ad almeno una di queste due domande.
La teoria della stupidità sarebbe anche confermata dalla vicenda dei requisiti per il rientro nel vincolo del 60%. È difficile a credere, ma la procedura del rientro verso il 60% è congegnata in modo da non consentire di raggiungere il 60%. Il punto è che non funziona in questo modo: tu registri il tuo valore dello sforamento del rapporto debito/PIL sopra il 60% a una data, e tagli il debito per venti anni di un ammontare pari a un ventesimo di questo sforamento. Ecco invece come funziona: tu ogni anno riduci il debito/PIL di un ventesimo dello sforamento misurato in quell’anno. Andatevi a vedere il paradosso di Achille e la tartaruga. Funziona esattamente allo stesso modo: Achille non raggiungerà mai la tartaruga e il debito pubblico di chi ha sforato non ritornerà mai al 60%.
Una regola simile probabilmente non sarebbe neppure passata alla conferenza nazionale di scemi del villaggio di “Amore e Guerra” di Woody Allen. Come è mai possibile che sia stata approvata dall’Europa? Resta un mistero, anche se a noi fa comodo: sembra che in venti anni, rispettando le regole, riporteremo il debito/PIL all’80% invece del 60%. È comunque vero che se si verificherà sarà il primo esperimento di un surplus primario prolungato e di ammontare eccezionale. Insomma, una sorta di record mondiale mai visto, come potrebbe esserlo un record di apnea sott’olio. I livelli dello spread attuale ci dicono che il mercato non crede che questo incredibile esperimento verrà effettuato. Alla fine, pensano i mercati, un attimo prima di metter la testa sott’olio, arriverà la grazia.
Di numeri, quindi, si può anche soffocare. E questo ci porta dalle domande di superficie a quella di profondità, che declinata sulla questione europea è: i numeri sono qui per restare? La regolamentazione dei vincoli quantitativi è la malattia infantile dell’Europa o la malattia senile dell’occidente? La questione del fiscal cliff americano è prova che la tendenza non è certo solo europea. Allora la domanda è se questi numeri ingabbieranno anche i nostri pronipoti, come stanno tarpando le ali a noi oggi, in occidente. Il problema è se arriveremo mai a una società in cui i limiti quantitativi non saranno più necessari. Per ritornare ai limiti stradali, la domanda è se arriveremo mai alla Exhibition Road di Londra, senza segnali e marciapiedi, e dove comunque la gente si muove con responsabilità.
Arriveremo mai a una società “incentive compatible”, cioè con regole che rendano il comportamento responsabile la scelta migliore? Se sentite aria di utopia, vuol dire che ne siamo ancora lontani. E siamo lontani. Nel mio campo di specializzazione, la gestione del rischio, gli schemi “incentive compatible” hanno fatto timidamente capolino all’inizio della storia del risk management moderno, nella prima parte degli anni 90. Ma pochi articoli nulla hanno potuto contro la protervia dei numeri, il famoso requisito dell’8% di capitale. Parlando con la mia collega Gabriella Chiesa, esperta del ramo, sembra che qualche studio del tema nella teoria della spesa pubblica e della pubblica amministrazione ci sia. Ma mi ha fatto notare che qui portare la teoria nella società è ancora più difficile, perché mentre il rendimento e il rischio di una banca o di un’impresa è misurabile, il prodotto della pubblica amministrazione non lo è.
Nel campo della spesa pubblica, quindi, la società “incentive compatible” è ancora debole. E anzi ne abbiamo potuto saggiare la forza in uno scontro tra un embrione di società “incentive compatible” e una pattuglia di numeri che si è verificato proprio in questi giorni. Guardate cosa è successo nel nostro campo, l’università, dopo che fiumi di fiele e bile sono stati versati per arrivare a qualche cosa che somigliasse alla misurazione della qualità. Una volta determinato che a queste misure sarebbero stati legati dei soldi, per una cifra di 41 milioni di euro, subito è intervenuta una pattuglia di numeri, arruolati in una legione chiamata “clausola di salvaguardia”, che hanno rintuzzato l’attacco. Ognuno di questi numeri, tutti uguali al 5%, si è schierato a difesa dei fondi di un ateneo, perché la clausola di salvaguardia dice che i fondi di nessun ateneo possono scendere del 5%, indipendentemente dal demerito. E questa legione di numeri, compatta, ha ancora una volta ricacciato indietro il merito.
A commento alla mia versione del Canto di Natale, il mio pro-rettore alla didattica ha osservato che sotto il profilo quantitativo l’università ha fatto ben più che i compiti a casa, con una riduzione dei trasferimenti del 14% in tre anni. Ma la clausola di salvaguardia, che ha imposto tagli lineari, ha reso questi sacrifici meno efficaci di quanto avrebbero potuto essere. Ecco la tragedia dei numeri: i numeri portano ai tagli lineari, che non chiamiamo “macelleria” solo perché anche il taglio di un macellaio è molto più informato e delicato. Quante volte ancora i numeri vinceranno sulla società “incentive compatible” non lo sappiamo, e non sappiamo se alla fine la società “incentive compatible” vincerà la guerra. Ma dal modo in cui i numeri della clausola di salvaguardia hanno attaccato e distrutto gli incentivi al merito, come anticorpi che attaccano cellule malate, è certo che lo scontro finale è ancora lontano e si misura in generazioni.