Dopo una serie di delusioni cinematografiche più o meno intense, recentemente ho visto American Hustle e sono finalmente uscito di sala pensando «questo è un signor film». Probabilmente c’era anche una breve giaculatoria tipica del nord est che qui ometto perché il Paese in cui vivo è laico e tollerante fino a un certo punto. Attori, regia, sceneggiatura, tutti di alto livello. Tornando a casa con la soddisfazione tipica di chi ha visto un film privo di fenicotteri che appaiono a cazzo di cane in uno scomposto tentativo di scimmiottare Fellini, ho pensato: perché non può essere sempre così? Con modi e codici diversi ma con la stessa efficacia, professionalità e bravura nel raccontare una storia? Perché il nostro cinema è, a parte qualche meritoria eccezione, chiuso nella forbice fra cinepanettoni e sbrodolamenti autoreferenziali?
American Hustle non è un capolavoro che rimarrà nella storia, bensì il frutto di una serie d’invidiabili professionalità che hanno lavorato bene assieme producendo un ottimo risultato. Personaggi non scontati, sfaccettati, pieni di un’umanità che non esonda mai dal punto del fiume dove l’aspetti, ma sempre in un luogo un po’ diverso che si rivela migliore di quello a cui avevi pensato istintivamente (come, cioè, se lo sceneggiatore avesse fatto il suo lavoro), una poetica innovativa, attori straordinari e una totale dedizione alla storia.
Il tipo di opera che all’uscita dal cinema ti fa pensare due cose: 1. Soldi e tempo spesi bene 2. Ammiro chi ha fatto questo film perché ci ha messo un grado d’intelligenza, talento e lavoro sufficiente ad onorare l’arte in cui si è cimentato.
(La locandina del film indipendente del momento)
La domanda che ne segue è: potrà mai il cinema italiano tornare ai tempi in cui queste capacità erano un suo patrimonio consolidato?
Pochi giorni dopo essermi posto questo domande, mentre sono di passaggio a Milano incappo nella proiezione di Spaghetti story il piccolo caso cinematografico di Natale, un film prodotto a Roma con soli 15mila euro che ha registrato numerosi sold out in giro per la penisola. Con tutte le cautele nelle aspettative, necessarie per un film costato così poco, decido di andare a vederlo. Non si sa mai, magari è qui che si celano, quanto meno in nuce, i germi della “rinascita”. Speranze che vengono frustrate grossomodo subito, dato che nella fase di presentazione dei personaggi il film sforna una infinita elencazione di tutti, ma proprio tutti, i luoghi comuni sui precari italiani resi sotto forma di dialogo: i personaggi parlano, ma la sensazione è quella di vedere due editoriali di Repubblica che litigano fra di loro. C’è il pusher che fa le reprimende modello nonnina incazzata al suo amico che è un attore incapace sia di recitare (o almeno di fare dei provini anche solo vagamente accettabili) sia di prendere coscienza che forse è ora di cambiare vita, c’è il tizio (presente solo in spirito ma ugualmente irrinunciabile) con un’infinità di titoli di studio che qui faceva la fame e in Inghilterra prende 4000 sterline per fare quello che gli piace, c’è la ragazza molto bella e molto dolce a cui scade la borsa di dottorato e il cui unico scopo come personaggio è figliare, tanto da disegnare minacciosi piedini-di-bimbo-non-nato-a-causa-della-congiuntura-economica nella condensa sulle finestre. Tutte cose che esistono nella realtà ma elencate in modo talmente meccanico che hai l’esatta percezione di quello che sta per arrivare già due scene prima.
«Tizio che ha trovato la soddisfazione all’estero in tre, due, uno…»
Ho trentun anni, sono un precario, ho preso porte in faccia, una buona dose di promesse non mantenute, ho subìto alcune ingiustizie e diverse dimostrazioni di ipocrisia che avrebbero turbato un ministro dei lavori pubblici della Dc e in passato ho guadagnato per il mio lavoro cifre così esigue da non dormire la notte, ma dopo trenta minuti abbondanti di situazioni costruite appositamente per veicolare discorsi da bar sul precariato già sentiti un milione di volte, e così univoci o massimalisti da essere al contempo fin troppo consolatori e falsificabili, ho incominciato a sentire crescente il desiderio di alzarmi e dire al personaggio che prima di tutto non esiste solo quello nella vita ma che se la sua situazione lo annichiliva in maniera così radicale doveva provare a fare qualcosa, qualsiasi cosa, fosse anche una rapina, emigrare in provincia per fare un concorso alle Poste, ricercare consenso e movimentazione sociale attorno a un’idea politica alternativa al neoliberismo (oppure l’equivalente contemporaneo: condividere il video #coglioneNO sui social) o, ragionando per assurdo, cercarsi un lavoro normale.
(il “lavoro normale” nel film è rappresentato con un simbolismo appena percettibile da un costume da clown con un enorme papillon rosso)
Per fortuna, dopo questa interminabile presentazione dei personaggi, la sceneggiatura imbocca una svolta, all’improvviso compare sullo schermo una storia e il film obiettivamente migliora. Il personaggio dell’attore capisce finalmente che l’unico futuro in questo Paese è nel traffico di droga e incomincia a trasportare gatti della fortuna cinesi ripieni di una non meglio specificata “droga cinese” per conto del suo amico Spirito del tempo.
A questo punto del film persino Giovanardi, se fosse in sala, direbbe «Bè, purché faccia qualcosa».
(il gatto cinese, il mio personale highlight del film)
Coi soldi della droga il nostro eroe vuole andare a fare festa, ma la giovane dottoranda savia e morigerata come una vecchia di uno sceneggiato di Rai uno preferirebbe riparare per la terza volta le sue vecchie scarpe. Istintivamente non puoi trattenerti dal guardare fuori dalla finestra per controllare che su Roma non stia anche nevicando.
La storia va avanti con qualche intreccio non esattamente a prova di bomba, senza rovinare il finale basti dire che i due amici a un certo punto fanno una cosa che non dovevano fare al grossista cinese di droga, tu ti sfreghi le mani e pensi Che cosa s’inventeranno per non finire impiccati in un capannone alla periferia della città? Un’ideologicamente compromessa alleanza con Casa Pound? La vendita della fidanzata ai camorristi in cambio di protezione? Una telefonata al cugino di quinto grado che lavora al Ministero degli Interni rinnegando quella volta che lo chiamasti ubriaco per insultarlo dopo aver letto La casta?
Nulla di tutto ciò, perché il grossista cinese di droga li lascia andare e si porta le mani alla testa in segno di disperazione.
Alla fine comunque tutti i personaggi riscoprono sentimenti nobili e si rendono conto che essere precari italiani è una merda ma sempre meglio che essere una puttana cinese.
E non è una battuta.
Insomma, pur concedendo tutte le attenuanti del caso, Spaghetti story ha più di qualche falla nella storia (che il regista e la co-sceneggiatrice hanno impiegato nove mesi a scrivere), e anche se a parte il pippone iniziale tutto sommato si lascia guardare, non siamo di certo di fronte al film che cambierà il futuro del cinema italiano, benché nel dibattito post proiezione con gli autori buona parte del pubblico si senta partecipe di una rivoluzione culturale inarrestabile, forse per il bisogno di trovarsi ogni tanto nel centro di una rivoluzione culturale inarrestabile. Spaghetti story ha però anche alcuni indubbi vantaggi sul cinema italiano istituzionale.
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In tutto è costato nulla, 15 mila euro, e gli attori sono dello stesso livello di quelli che prendono fino a 500mila euro a film di cachet. A parte il pusher. Lui è più bravo.
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In tutto il film non c’è nemmeno una ricca donna di mezz’età in crisi isterica (ce n’è una un po’ fuori di testa, ma non sappiamo quanto guadagna, non la vediamo urlare né essere Margherita Buy).
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In tutto il film non ci sono personaggi che si strattonano e si tirano a destra e manca mentre litigano. Nel momento di massima tensione, i due personaggi principali parlano seduti e uno di loro tiene in mano una canna rollata a bandiera. Questo fa di Spaghetti story, nonostante il trafficante cinese inetto, l’apice del realismo cinematografico italiano dell’ultimo decennio.
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La drammaturgia del film non è basata su un sondaggio swg con una ripartizione dei personaggi sulla base del loro partito di riferimento. Non c’è “il leghista” quello “di sinistra”, quello che negli anni ’70 era di Lotta continua ma adesso è Toni Capuozzo ecc…
5. Non ci sono vecchie che mangiano radici.
Infine c’è il vantaggio dei vantaggi, quello che probabilmente ha generato il successo di pubblico e il passaparola, ovvero il rappresentare un certo tipo di precari italiani creativi esattamente come quel tipo precari italiani vedono se stessi. Bloccati in una palude d’ingiustizie da cui non esiste alcuna possibile via d’uscita, e in cui i giorni scorrono pieni di inedia fra quelli in cui prendi calci in bocca e ti lamenti e quelli in cui ti lamenti e poi prendi calci in bocca. Per quanto questa descrizione abbia un elevato grado di attendibilità, il quadro è reso in una maniera talmente univoca e pesantemente connotata moralmente da risultare comunque poco credibile. Ed è qui che Spaghetti story fallisce maggiormente il suo tentativo di differenziarsi da quel cinema italiano contemporaneo che i suoi autori criticano. Rimane cioè ugualmente legato a una visione manichea dell’esistenza, anche se rovesciata dal basso, e si dimostra incapace di tratteggiare personaggi abbastanza credibili da uscire dallo schermo e parlarci con sincerità dei loro conflitti, delle loro aspirazioni, seppur in un panorama di indiscutibile e gravissima ingiustizia sociale e generazionale. L’ansia palese di dimostrare l’assoluta sfortuna del giovane italiano a fronte della sua assoluta innocenza è il grande afflato religioso che tiene assieme tutta la traballante strutta di Spaghetti story, facendogli fallire la missione di rinnovamento narrativo che si prefigge continuando a confondere lo storytelling con la predica manifesta. E questa non è una questione di budget, ma di scrittura.
La prima cosa che servirebbe per alzare il livello della narrazione è l’eliminazione radicale dei dualismi Bianco/nero. Senza per questo consegnarci a un’equivalenza delle posizioni, bensì a un cinema che ci faccia scoprire qualcosa di nuovo sull’essere umano mentre ci racconta una storia, fosse anche una storia di ingiustizia e mancanza di equità generazionale. Certo, il prezzo da pagare è la completa sincerità, compresa quella riguardo i più deboli e le vittime. Spaghetti story non riesce affatto in questo intento. In fondo, però, non ci riesce spendendo 15 mila euro, che è sempre meglio che non riuscirci spendendone un milione.