Che abbia come clienti Madonna (vuole sempre lo stesso tavolo, strano eh), Robbie Williams, Johnny Deep o i Beckham non stupisce troppo. La verità è che Giorgio Locatelli, da Corgeno (frazione di Vergiate, provincia di Varese), è il più famoso cuoco italiano fuori dai nostri confini. Basti dire che affascinava le platee televisive inglesi quando Cracco lavorava ancora per Peck e Barbieri spignattava in Romagna. Dal 2002 è chef-patron di Locanda Locatelli a Londra, nella centralissima Seymour Street: stella Michelin a pochi mesi dall’apertura, non l’ha più persa. Un uomo dei sogni, visto che invece di crescere serenamente nel locale di famiglia (sul lago di Comabbio), ha girovagato giovane in Svizzera e nell’86 si è piazzato al The Savoy di Londra, dove è rimasto per quattro anni. Poi Laurent e Tour d’Argent a Parigi, un anno sabbatico (fondamentale, dice lui) e il felice ritorno sotto il Big Ben, prima come chef del mitico Olivo e poi come titolare di Zafferano, aperto nel ‘95. Nomi italiani per una cucina italianissima, tradizionale (non vecchia). Nel menu della Locanda ci sono lingua di manzo in salsa verde, linguine agli scampi, coniglio al forno, polenta e radicchio tardivo. Sorpresi? E’ così che ha vinto la grande scommessa e continua a vincerla.
Locatelli, lei è stato il primo cuoco italiano a conquistare una stella Michelin, nel 1999, con Zafferano. Ed è arrivato qui molto giovane. Come mai?
Semplicemente volevo andare a fare lo chef all’estero. Corgeno per me era un buco, nonostante l’eccellente ristorante di mio zio (Cinzianella ancora in attività, ndr) dove sono cresciuto e che forse avrei preso in mano. Londra mi ha sempre attirato e quindi ho preso lo zaino e via. Peraltro, anche i tre anni a Parigi mi hanno insegnato molto e paradossalmente mi hanno convinto a puntare sulla cucina italiana: quella francese era all’epoca la migliore del mondo ma non mi piaceva, non la sentivo mia.
La Locanda Locatelli, a Londra
Ma come ha fatto a sfondare?
Credendoci ciecamente e lavorando come un pazzo. L’esperienza come head chef all’Olivo è stata eccezionale: eravamo solo quattro in cucina e due in sala per sessanta coperti. Mi ricordo notti a preparare piatti per i cuochi inglesi che venivano a trovarci, dopo aver chiuso il loro servizio, per capire cosa stavamo combinando, e poi diventavano amici. Facendo di tutto ho capito cosa significasse avere una visione per far funzionare tutto il locale, dall’acquisto al bilancio economico. Poi è arrivato lo Zafferano che mi ha dato maggiore notorietà e successivamente Locanda Locatelli.
Ma come mai in una città dove le tendenze nascono e si consumano in un mese, la Locanda Locatelli non perde mai l’appeal?
Semplice, per il valore del team. Garantisco che siamo stati i primi “italiani” a creare un ottimo gruppo che si rinnova continuamente senza perdere il livello d’eccellenza. Gli inglesi questo lo apprezzano tantissimo. E siccome Locanda Locatelli è ancora il metro di paragone per i nuovi locali, non solo italiani, abbiamo la motivazione per non mollare mai. Londra peraltro non lo permette a nessuno.
Provocazione pura: il suo è un ristorante italiano a Londra o un ristorante inglese di cucina italiana?
Assolutamente il primo. Ovvio che i parametri economici e lo standard generale sono legati alla città in cui opera il locale. Ma al di là del gran numero di dipendenti, il tipo di cucina, il servizio e se vogliamo il modo di emozionare il cliente sono nostri.
A proposito di dipendenti, ne ha molti italiani? Li ha cercati o arrivano?
L’80% del personale è nato in Italia, anche se magari lavoravano già qui. La qualità è decisamente superiore a quella che trovavo nei primi anni: finivano in cucina e in sala, senza preparazione adeguata solo perché erano “italiani”. Salvo poche eccezioni, ho solo l’imbarazzo della scelta tra i curriculum: il nome e la stella Michelin attirano tantissimo. E Londra è più che mai di moda tra gli italiani o sbaglio?
Ci dà qualche idea del business?
Beh, il fatturato annuo è sui 5 milioni di sterline.
Più di sei milioni di euro all’anno con un solo locale da 80 coperti? I suoi colleghi in Italia moriranno d’invidia…
Forse non sanno che ho settanta stipendi veri da pagare ogni mese e che il mio locale è aperto sette giorni alla settimana, a pranzo e a cena.
Si sarà accorto sicuramente che Londra è considerata la nuova terra promessa dei nostri ragazzi. Cosa ne pensa in generale?
Fanno bene a venire, in ogni caso. Questa è una città adrenalinica, che offre molte opportunità. Io dico che è formativa, impari sempre qualcosa.
Sono ragazzi diversi da quelli che sono arrivati insieme a lei?
Sicuramente. Per noi era un’avventura, pochissimi erano imprenditori di loro stessi o partivano già con l’idea di un lavoro preciso. Tanto è vero che i nostri ristoranti erano aperti spesso da “ex di qualcosa”, non da osti o veri cuochi. I ragazzi di oggi sono ben più preparati, proprio ieri ci siamo messi a calcolare il food cost dei singoli piatti nel menu e non sbagliavano un colpo. L’importante è che non interrompano gli studi per lavorare subito. I cinque anni sono fondamentali anche nella ristorazione.
È stato il primo chef italiano, anche se all’estero, a frequentare costantemente televisione e a scrivere libri. Solo pubblicità?
No, aiutano nel lavoro di tutti i giorni e magari fanno guadagnare. Ma soprattutto sono esperienze che ti arricchiscono professionalmente e umanamente, li considero stages nella vita. Va detto che senza un grande team non potrei fare nulla.
Farinetti qui farebbe grandi affari come a New York.
Ci ha provato, aveva in mente un Eataly a Covent Garden ma non ha concluso.
Facilmente diventerebbe il numero uno anche perché qui a Londra non si trova la buona materia prima italiana. Almeno così dicono tanti suoi colleghi…
Palla clamorosa. È che bisogna creare una rete di importatori ad alto livello, quindi costosi, per avere sempre prodotti della massima qualità. Chi pensa di farne a meno o farsi arrivare la roba direttamente dall’Italia non può farcela. Ma dire che qui non si trovano i prodotti…C’è il meglio di tutto il meglio, da tutto il mondo.
I parenti del lago le raccontano della foodmania italica?
Sì, so che Masterchef per esempio fa ascolti clamorosi e ci sono programmi su ogni canale, a tutte le ore. Io credo che parlare di wine & food nel modo giusto abbia un enorme effetto benefico. È cultura, non solo piacere: in Inghilterra, la tivù è stata la prima artefice del salto di qualità nell’alimentazione. In Italia si è molto più avanti in questo senso, per tradizione, ma più si parla bene di questi argomenti e più la gente impara a mangiare meglio e cucinare bene.
In compenso, i locali soprattutto di fascia medio-alta o alta sono in difficoltà. Tanti colleghi mollano o stanno per farlo, tutti si lamentano. Li capisce?
Quelli delle piccole realtà sicuramente. Il nostro sistema penalizza le imprese senza peso politico o sociale: in Gran Bretagna, le banche prestano anche mezzo milione di sterline, senza farti i raggi X come da noi, a patto che tu abbia un’idea interessante per la ristorazione. Da noi, piove sempre sul bagnato: chi non ha soldi, non riesce a farseli dare, chi li ha trova il finanziamento. Ma bisognerebbe dare fiducia, no? Io sono partito dal lago con 450 sterline e qualche anno dopo, con tanto sacrificio sia chiaro, ho comprato un ristorante che oggi vale otto milioni di sterline.
L’errore da non fare assolutamente?
Pensare che il cliente non sappia. Oggi, la conoscenza della cucina italiana – in tutto il mondo – non è più patrimonio di pochi fortunati. Anche i non gourmet hanno ormai un’infarinatura base e capiscono. Quindi i p.r. servono ma non bastano, la qualità dei piatti e del servizio fanno la differenza.
Ci sono Paesi dove secondo lei ha senso ora fare ristorazione?
La Cina, indubbiamente. Infatti ho un progetto in ballo, di grande livello perché è lì che ha senso investire: la clientela ricca è salita del 20% rispetto a qualche anno fa. Ma ripeto, bisogna arrivare seriamente, con grande professionismo e non con l’idea di fare business come fosse un gioco da ragazzi.
Locatelli, come vede e vedono l’Italia dal centro di Londra?
Si fatica a capire come un Paese con tante eccellenze non le esprima, anzi spesso le rovini. Qui ci amano alla follia, più di tutti gli altri europei, e il professionista italiano è considerato uno dei più bravi in qualsiasi settore. Invece, il giudizio sull’Italia nel complesso non è dei migliori, per la politica in primis. La speranza è nei giovani ma bisogna dare loro dei sogni, dei grandi obiettivi da inseguire. Come li avevo io.
La prego chef, in chiusura ci dica che ogni tanto ha voglia di tornare a casa per aprire un locale.
Vi deludo. Sarebbe stupido lasciare una posizione così importante che mi sono costruito in venti anni di lavoro. E poi è sbagliato “mollare” un team così numeroso e valido, che ho creato nel tempo. Siamo cresciuti insieme, insomma. Ma se proprio, fra tanti anni dovesse succedere, penso che aprirei un locale in Sicilia: mi piace la sua cucina e poi c’è quel clima caldo che qui e anche sul mio lago si trova ben poco.