Il funerale politico di Enrico Letta si celebra senza di lui. Annusato l’odore della rottamazione, il diretto interessato ha deciso di disertare la funzione. Segue i lavori della direzione Pd dal suo studio di Palazzo Chigi. «È la dimostrazione che i giochi sono fatti» sintetizza l’ex sindaco torinese Sergio Chiamparino, renziano della primissima ora. Alla fine l’operazione risulta rapida e indolore. Per archiviare il governo Letta, Renzi impiega meno di mezz’ora. Un discorso a braccio, davanti ai dirigenti del Nazareno. Nessun attacco a Letta, nessuna critica al suo operato. Anzi, il segretario liquida il presidente del Consiglio ringraziandolo più volte per il lavoro svolto negli ultimi mesi. In realtà ne parla già al passato, come se le dimissioni fossero già sul tavolo di Giorgio Napolitano. Un’omelia funebre rispettosa. Ma senza appello, com’è naturale che sia.
Quando membri della direzione Pd arrivano alla spicciolata al Nazareno l’ora del pranzo è passata da poco. Non parlano con i giornalisti. Chiusi nei cappotti, si adeguano al clima: sembrano diretti in una cappella mortuaria. I sorrisi sono quasi meno delle parole. Pressati dalle telecamere, evitano di commentare la staffetta a Palazzo Chigi. Stefano Fassina, ex viceministro, sbaglia strada. Prova a infilarsi nella porta posteriore del palazzo. È chiusa. E allora riprova da quella principale. Ma c’è un gruppo di insegnanti a contestarlo. «Bastardo, non hai votato l’emendamento di Beppe Grillo, non abbiamo più niente da mangiare!». Lui svicola, imbarazzato, alla fine riesce a entrare. Nico Stumpo, come una prima linea del pacchetto di mischia del rugby, si dimena tra almeno venti microfoni. Non dice nulla neppure lui. Matteo Orfini arriva con Andrea Orlando: «Non parliamo prima della direzione».
L’unico a prestarsi alle interviste è Pippo Civati. «È anche normale che Letta non partecipi alla direzione» dice il deputato monzese. «Lo stanno trattando come la giraffa dello zoo di Copenaghen. Io in qualunque caso voterò no, i nostri elettori sono furibondi per quello che sta accadendo». Ripeterà la considerazione almeno dieci volte. Ignazio Marino, sindaco di Roma, arriva in bicicletta, con il caschetto d’ordinanza. Non parla. Non risponde alle domande. Intanto intorno alla sede del Pd iniziano a radunarsi personaggi più o meno improbabili. Un gruppo di anziani rinfaccia al premier di aver scritto «il compitino ieri sera per salvare la poltrona», alcune ragazze festeggiano la laurea. C’è di tutto nel giorno del funerale di Enrico Letta. Di Gianni Pittella non si accorge quasi nessuno. Intanto i commercianti di via delle Fratte protestano perché per l’ennesima volta hanno dovuto tenere chiusi i negozi.
All’interno del Nazareno la funzione funebre sta per iniziare. «Non sarà un processo al governo» assicura Renzi in apertura. Anche perché altrimenti il processo si sarebbe celebrato in contumacia. Il programma di governo che ieri il presidente del Coniglio ha pomposamente presentato a Palazzo Chigi? Sarà considerato un «contributo» per superare i problemi del Paese. L’onore delle armi ha il sapore della beffa. Del resto Matteo Renzi rifiuta con forza la metafora della staffetta. «Non procediamo alla stessa velocità né andiamo nella stessa direzione. È necessario cambiare orizzonte, intensità e ritmo».
L’intervento è una lunga giustificazione al suo prossimo incarico a Palazzo Chigi. Renzi chiede di aprire una pagina nuova. L’Italia è davanti a un bivio, spiega il segretario (ormai presidente del consiglio in pectore). Da un lato ci sono le elezioni anticipate. «Una strada che ha la sua suggestione e il suo fascino» ammette. Sebbene inutile, data l’attuale legge elettorale. Dall’altro una strada quasi obbligata: «provare a impostare un percorso di legislatura». Proseguire il percorso delle riforme fino al 2018, con un nuovo esecutivo. Per legittimare la scelta Renzi ricorre alla poesia. «Due strade trovai nel bosco – cita Robert Lee Frost – E io scelsi quella meno battuta». Quanto poi sia meno battuta la strada che porterà Renzi a Palazzo Chigi è altra storia.
Lui assicura che la decisione è altamente disinteressata. «Mettersi in gioco adesso ha un elemento di rischio personale». La possibilità di bruciarsi è concreta ma, assicura, «chi fa politica ha il dovere di rischiare». Il segretario e il Partito democratico devono prendersi le proprie responsabilità, ripete più volte. In gioco c’è il destino del Paese. «Vogliamo provare a cambiare l’Italia?». L’immagine fin troppo abusata della palude offre il pretesto per dire addio a Enrico Letta. Serve un cambiamento profondo per superare l’impasse. Un patto di legislatura che duri altri quattro anni per rispondere ai problemi reali del Paese. «Dobbiamo avere un’ambizione smisurata». Questo è indubbio.
Fuori dal Nazareno sono rimasti solo pochi contestatori. Alcuni lavoratori ex Lsu-Ata mostrano le lettere di licenziamento con cui sono costretti a scegliere tra la disoccupazione e il taglio dei salari. «Vergogna, la spending review l’avete fatta addosso a noi», protestano assiepati all’ingresso della sede del Pd. Qualcuno ha un cartello: «Renzi come Letta, in Italia non cambia mai niente».