Pretende franchezza, Matteo Renzi. È forse è proprio questa la prima novità. «Vorrei essere l’ultimo presidente del Consiglio a chiedere la fiducia al Senato». Esordisce così, tra gli sguardi un po’ sorpresi di chi lo ascolta. Renzi chiede i voti di Palazzo Madama, promettendo in cambio la sostanziale eliminazione dell’assemblea. Sfrontato, sicuramente coraggioso. Del resto il primo discorso alle Camere è tutto improntato al cambiamento. Vero o presunto è ancora presto per saperlo.
In un’ora e dieci di intervento, Matteo Renzi sembra un marziano. Irrituale, fa di tutto per marcare le distanze con il Palazzo. Quelle mani in tasca volutamente ostentate, quasi a segnare un irriverente disinteresse per l’etichetta. Quel gap anagrafico, che Renzi non fa nulla per nascondere. «Non vorrei iniziare con una citazione colta e straordinaria della bravissima Gigliola Cinquetti – ironizza – Ma io non ho l’età per sedere nel Senato della Repubblica».
Matteo Renzi e i ministri durante il discorso per la richiesta della fiducia al Senato
Al termine qualcuno conterà quattordici applausi. Un po’ tiepidi a dire la verità. Il discorso viene svolto rigorosamente a braccio, tanto che per consegnarlo a Montecitorio si deve attendere il resoconto stenografico di Palazzo Madama. Parlando Renzi gesticola, neanche fosse a un comizio. Scherza con i presenti. «Dicevano che al Senato non vi divertivate – sorride all’ennesima contestazione grillina – Vi garantisco che vi divertirete sempre di più».
Con i senatori del Movimento Cinque Stelle si punzecchia più volte. Botta e risposta istituzionalmente inconsueto. «A differenza di qualche leader siamo orgogliosi di essere democratici», spiega poco dopo aver preso la parola, senza che i diretti interessati intendano il riferimento. Quando i grillini ironizzano sulla sua salita a Palazzo Chigi Renzi si interrompe e risponde duro: «Noi non abbiamo paura delle elezioni. Nelle ultime quattro elezioni il Partito democratico si è sempre presentato e ha sempre vinto. Non posso dire lo stesso di voi». Li prende di mira, i Cinque Stelle. «Non è facile stare in un partito dove il capo dice “Io non sono democratico”» li incalza più tardi.
Matteo Renzi durante il discorso in cui ha chiesto la fiducia al Senato
Il presidente del Consiglio insiste più volte sulla distanza tra il Palazzo e il paese reale. Lui ovviamente si presenta come un uomo del popolo. «Se in questi anni avessimo prestato ai mercati rionali lo stesso ascolto che abbiamo dato ai mercati finanziari…». Parlando di scuola quasi sfida i presenti. «Mi piacerebbe che potesse capitare, a chi ha la presunzione di avere la verità in tasca, la possibilità di confrontarsi con un insegnante». In questo il Matteo Renzi gioca in casa. La moglie Agnese, insegnante, lo ascolta in prima fila dalla tribuna. Curiosamente si è sistemata proprio sopra i banchi della Lega Nord. Da quel settore non partirà mai un applauso.
Del resto Renzi non è un uomo di Palazzo. O almeno fa di tutto per non apparire tale. Anche per questo cita quasi ossessivamente la sua storia di sindaco: «Uno che nella vita di tutti i giorni parla con le persone». Come ogni buon amministratore del territorio, uno concreto. Ecco l’altra differenza dalla politica romana. «Diamoci delle scadenze – spiega Renzi a un certo punto – Proviamo a immaginare un percorso concreto». Sferzante, in alcuni passaggi. «L’interesse nazionale non è il lancio di agenzia del singolo parlamentare, ma il posto di lavoro che si crea».
Il rischio dello spot elettorale è sempre dietro l’angolo. Come quando il presidente del Consiglio annuncia che da mercoledì visiterà una scuola a settimana. «Proprio come facevo da sindaco». Il giro inizierà tra due giorni a Treviso, poi toccherà a un istituto del Meridione. «È un segnale simbolico: da qui riparte il Paese». Renzi racconta degli sms arrivati dai conoscenti, dell’amico che ha perso il lavoro (una delle prime telefonate che ha voluto fare ieri sera, appena trasferito a Palazzo Chigi).
Il presidente del Consiglio chiede «sogni e coraggio». Si può essere più o meno d’accordo, ma il cambio di passo è evidente. Matteo Renzi non propone dati o cifre – attirandosi le critiche di tanti parlamentari -, ma alcuni impegni concreti. L’auspicato cambio radicale nelle politiche economiche passa da alcuni interventi: lo sblocco totale dei debiti della pubblica amministrazione, la costituzione di fondi di garanzia per le piccole e medie imprese, la riduzione “a doppia cifra” del cuneo fiscale. «Interventi precisi e puntuali» assicura il presidente del Consiglio. Entro marzo arriverà il “Piano per il lavoro”. Renzi non parla più di Jobs Act. Chissà, forse è un cambio nella strategia mediatica. Come il dress code della sua squadra di governo. Gli abiti blu elettrico e rosa pastello sfoggiati per il giuramento al Quirinale sono stati riposti nell’armadio. Per la fiducia al Senato le ministre vestono solo sobri tailleur scuri.
E poi c’è la riforma della Giustizia. La novità del governo passa anche da qui. «Abbiamo vissuto venti anni di scontro ideologico» racconta Renzi. È finalmente arrivata l’ora di voltare pagina? A giugno arriverà in Parlamento un pacchetto organico di proposte. In cantiere novità per la giustizia amministrativa, civile e penale. Come anticipato la scorsa settimana, si partirà dalle revisioni istituzionali. Legge elettorale, riforma del Senato e del Titolo V. Nel calendario del presidente del Consiglio è già segnato il mese di marzo. C’è tempo per valutare le politiche del governo. Al momento la vera rivoluzione è un’altra. L’assunzione di responsabilità. «Se perderemo questa sfida – dice Renzi – sarà solo colpa mia. Non ci sono più alibi».