Flaiano, Sorrentino e La grande bruttezza

Oscar 2014 - Perchè non ci piace il film

La grande bellezza divide non da oggi lettori e critica. Siamo ovviamente contenti che un film italiano torni a vincere l’Oscar 15 anni dopo La Vita è Bella di Roberto Benigni. A Linkiesta però il film non è piaciuto particolarmente e proviamo qui sotto a raccontare il perchè con questa analisi di Quit the Doner. Un film che piace alla gente che piace (in Italia) e che veicola all’estero il solito cliché di un’Italia di plastica, immutabile e irredimibile, cinica e gretta – di cui Roma è la grande cloaca nonché metafora- , pigra e a senso unico, dai costumi molli e corrotti, costruita per luoghi comuni e fondamentalmente autolesionista. Un made in Italy furbetto di sicura esportazione, che trova il successo perché è così che ormai da tempo, oltre confine, ci percepiscono. Colpa nostra, ovviamente. Ciò non toglie che il giornale ospita e ospiterà con convinzione opinioni e analisi contrastanti, sono il sale del dibattito. Lo ha fatto ad esempio nei mesi scorsi con la bella “stroncatura” al film di Alberto Tristano così come, in queste ore, con l’elogio di Luca Telese (entrambi gli articoli li trovate linkati in fondo all’articolo).

Da tempi non sospetti scrivo che La grande bellezza è un film sopravvalutato. Ovviamente ora che Sorrentino ha affiancato Gigi D’Alessio (1° nella chart di Billboard) nel cuore degli americani non ho cambiato idea, ma sono felice che il nostro Paese sia ancora in grado di esportare prodotti culturali di grande levatura come i versi immortali «con le tue braccia vivo e amo ancora/quante emozioni mi regali ancora» e i fenicotteri rosa.

La grande bellezza fallisce sotto una quantità di aspetti che avrebbero ucciso nella culla qualsiasi altro film privo del sostegno di quella corazzata cultural-mediatica che ne ha fatto una bandiera dell’Italia, che lo volessimo o meno.

(ma anche no)

Il film ha una struttura debole, una scrittura autocompiaciuta, spesso dozzinale e fa un uso sistematico di situazioni grottesche e immaginifiche ogni qual volta si infila in un vicolo cieco, là, cioè, dove altri, ingenui e banali, userebbero strumenti demodé come una sceneggiatura.

La grande bellezza non parla di Roma in generale, né della Roma bene né della Roma popolare. Questo però non è il problema. Il dramma del film è che il mondo che non esiste di cui parla non è interessante o intelligente, non è allegorico, non è evocativo, non apre fondamentalmente a null’altro che una serie di situazioni assurde ed estetizzate come si trattasse di una pubblicità di Dolce e Gabbana lunga due ore e mezza.

I fili della storia sono esili, non s’intrecciano mai, i livelli di lettura non si dischiudono perché semplicemente non esistono. Mai in un singolo momento ti chiedi «e ora cosa succederà?» oppure «questo cosa implica?». Sembrano domande banali ma stanno alla base di ogni grande classico della narrazione. Qui però siamo oltre queste quisquilie popolane, il che tradotto dalla lingua della vanità artistica all’italiano corrente significa molto al di sotto.

Nel fare ciò, Sorrentino si conferma il Tarantino del cinema d’autore, la sua è forma estremizzata, spogliata di rapporti con il senso più ampio del film e con il mondo con il quale l’opera si rapporta, è cioè pura forma autocompiaciuta.

Le famose digressioni oniriche di Sorrentino non sono mai destabilizzanti, acute, ironiche, tragiche, e neppure eleganti. Non sono nient’altro che estetica ingrassata a dismisura fino a spogliarsi di ogni significato: la vecchia che mangia le radici, il prete che parla sempre di cibo, la festa irreale sul terrazzo, la scena del botox, la morte del personaggio della Ferilli, tutto è sempre tanto autoreferenziale quanto banale. Non sono trovate fatte per essere intelligenti ma per sembrare intelligenti a un pubblico il più ampio possibile.

Oltre a ciò il film è un alternarsi d’immagini solenni e lunghi pipponi sul senso della vita, nell’attesa che arrivi l’ennesima citazione di Fellini, talmente urlata e manierista che ti aspetti sempre che venga fuori in sovraimpressione una scritta in Impact:

Il dramma è che Sorrentino prova ad imitare tutto  del regista di Rimini, ma non coglie che gli elementi più superficiali della sua poetica, distorcendoli e strappandoli al loro universo di senso senza introdurli dentro qualcosa di nuovo. Ne La Dolce Vita un uomo apparentemente frivolo ma in realtà molto lucido si muove nel cuore di un Paese troppo euforico per rendersi conto che in fondo alla promessa del benessere occidentale non c’era poi tutta questa felicità. La svolta che fa del film un capolavoro però è l’omicidio-suicidio di Steiner, è lì che al ritratto sociale si aggiunge la tensione della tragedia greca. Ne La grande bellezza di conflitti di tale entità non ce n’è traccia. Eppure c’è qualcosa di ancora più disturbante. Ho capito appieno cosa solo alcuni giorni fa, rileggendo uno dei miei racconti preferiti di Flaiano, ovvero La penultima cena (cfr. Le ombre bianche Adelphi). 

(Ennio Flaiano)

Nel racconto, l’alter ego dello sceneggiatore de La dolce vita si trova in una città che non è la sua e viene invitato da un amico ad una festa “particolare” della borghesia del luogo.

Qui l’alta società di provincia si concede a un gioco secondo il quale i convenuti, tutti vestiti con delle tuniche, accettano di dividersi per una notte in schiavi e padroni secondo il volere del caso. Hanno organizzato cioè quello che oggi chiameremmo “un gioco di ruolo” con una evidente eco orgiastica che però non viene mai esplicitata fino in fondo.

In questa situazione il protagonista si trova assegnato alle amorevoli cure di una contessa che interpreta con estrema dedizione il ruolo della sua schiava. Benché non sia affatto immune ai piaceri che spettano a chi si trova dentro il cuore della decadenza, l’uomo non riesce proprio a evitare di infilarsi in una discussione con il padrone di casa in un crescendo di tensione che va quasi contro la sua volontà, benché scaturisca proprio da lui. Nonostante tutto il protagonista non riesce a mordersi la lingua e non rimarcare pubblicamente quella che per lui è la vera natura del convivio in cui si trova. È la sua indole e da bravo scorpione finisce per pungere la rana e affogare.

Così quando diventa chiaro a tutti nella sala che il protagonista non è uno in grado di tacere i suoi pensieri e quella che crede sia la verità, neppure quando questo sforzo è ricompensato in maniera così generosa, egli viene cacciato di casa in un modo incredibilmente umiliante.  

Alla fine di questo racconto capisci esattamente cosa manca a Jep Gambardella per essere un personaggio tridimensionale e dare una chance al film: la sincerità.

La grande bellezza è un film profondamente insincero perché Jep Gambardella cerca di convincerci per due ore mezza che lui in quella Roma immaginaria ricca, indolente, privilegiata e fancazzista ci si trova esistenzialmente male, un po’ come Flaiano alla festa del racconto.

Quello che stona è l’evidenza del fatto che invece Gambardella interpreta un ruolo che non è il suo: le sue contraddizioni sono solo apparenti. Jep sta benissimo dove sta. È un non-personaggio nella misura in cui non prova mai a fare i conti con sé stesso né la storia lo obbliga a farlo. Per questo di fatto il film non inizia mai ed è totalmente privo di tensione in ogni direzione. Ogni opera d’arte, per quanto diversa, ha sempre bisogno di un minimo comune denominatore per provare a dirsi tale: l’onestà nei confronti di sé stessa e dell’uomo.

Il conflitto di Jep invece non esplode, rimane inespresso sullo sfondo, per questo i conti non tornano, le sue fantasie sono deboli, i suoi sogni scontati, la struttura traballante, le sue citazioni incapaci di aprire nuove e feconde vie: il film è basato su una menzogna, e la menzogna, se non la si esplicita e la si tematizza, costituisce un pessimo fondamento su cui costruire. 

Se dentro non ci riconosci alcuna parte della Roma reale è perché La grande bellezza è il racconto di una bugia raccontata prima di tutto da Sorrentino e poi da Jep Gambardella a sé stessi, è l’immagine descrittiva non di una parte della città, ma di come essa vede o potrebbe vedere sé stessa: una visione di comodo stereotipata, semplicistica, irreale ma soprattutto autoassolvente, che vorrebbe essere poetica ma lo è nel  modo grottesco e privo di grazia di chi impiega troppe energie a essere insincero.

Che piaccia a molti italiani che contano, con la loro scarsa onestà intellettuale, e a tanti stranieri, con la loro visione macchiettistica ed estetizzata dell’Italia, è perfettamente conseguente. 

Jep e Sorrentino in realtà sono uomini se non felici almeno perfettamente integrati, il che non sarebbe di per sé un delitto, ma sono anche privi del coraggio di ammetterlo a sé stessi, preferiscono giocare il gioco dell’artista problematico, dannato e maledetto, perché è l’unica cosa che credono di saper fare.  Il bluff di Jep è tale e quale a quello della radical chic che attacca sulla terrazza, solo non se ne rende conto e Sorrentino con lui. 

In questa contraddizione ci sarebbe il film, qui ci sarebbe la criticità che genera il dramma, l’inizio della storia che ti farebbe chiedere «Come va a finire?», «Cosa succederà al personaggio?».

Ma Sorrentino non può ammettere niente del genere, Jep gli è troppo simile, e sceglie di ignorare l’occasione di capire che il suo protagonista non è certo un uomo che non riesce a tacere e prima o poi qualcuno finisce per cacciare di casa come il Flaiano de La penultima cena bensì la sua esatta nemesi: il surrogato che dentro la casa la gente applaude per la sua deflagrante, coraggiosa, visionaria inoffensività.

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