La relazione tra il governo (e il presidente del Consiglio in particolare) e le principali forze intermedie del Paese (Confindustria e i sindacati, la Cgil soprattutto) è sempre più tesa e difficile. Il rapporto con le organizzazioni di rappresentanza sembra mostrare ormai la corda, tanto che lo stesso governatore della Banca d’Italia ha espresso profonde critiche accusandole di essere uno degli elementi di freno del Paese. Abbiamo visto in sondaggi recenti come questo atteggiamento sia condiviso da una vastissima fetta di elettorato.
Per seguire questo percorso è utile fare un passo indietro.
L’atteggiamento che alcuni chiamano “direttista” si conclama con il successo del Movimento 5 stelle alle scorse elezioni politiche. Come scrive Nadia Urbinati: «Pur non avendo riscritto la Costituzione formale, il M5s ha riscritto una parte importante della pratica politica organizzata e gestita dai partiti, introducendo un elemento di “direttezza” nella democrazia rappresentativa, dando vita a quel che con un ossimoro chiamerò democrazia rappresentativa in diretta»(1).
La necessità di un leader che incarna, rappresenta e presenta valori e programmi, è evidente e forse non abbisogna di dati a sostegno. La resistenza alla personalizzazione della politica è stata assai più forte nella sinistra. Tuttavia anche il centrosinistra approda al riconoscimento del leader e del suo ruolo, con le elezioni primarie della fine del 2013. Lo spostamento su Renzi è massiccio anche da parte della “vecchia” componente culturale che innerva quel partito, quella ex-comunista.
Questo clima rafforza l’atteggiamento di “direttismo”, cioè quella ricerca del superamento dei passaggi intermedi nella relazione diretta con i centri di decisione e, quindi, con il leader.
Ma ci sono due conseguenze che vanno valutate. La prima è la percezione della inutilità, o almeno dell’eccesso di barocchismo, della democrazia rappresentativa, che si basa sul bilanciamento e l’equilibrio dei poteri, sui pesi e contrappesi che difendono dalla tirannia della maggioranza e che quindi depotenziano l’idea di legittimità fondata esclusivamente sull’investitura popolare. Nel direttismo c’è quindi un potenziale orientamento “dispotico”.
L’altra conseguenza sta nel porre all’ordine del giorno una rivisitazione degli strumenti deliberativi: l’occasione creata dalla necessità di rivedere, insieme alla legge elettorale, anche la struttura dei poteri e delle loro forme (abolizione o trasformazione del Senato, abolizione delle province, revisione dell’assetto delle istituzioni locali attraverso la creazione delle aree metropolitane, l’accorpamento dei piccoli comuni, la gestione integrata dei servizi, sino ad arrivare anche alle ipotesi di revisione della struttura e delle competenze regionali) diventa anche il momento in cui si pensa sia possibile ridefinire la struttura e l’assetto dei poteri repubblicani. Si tratta insomma di un’occasione per ripensare le forme attraverso cui la democrazia si esprime.
Con le elezioni politiche del 2013 si chiude anche una visione, come la chiama Orsina, “pedagogica ed ortopedica” della politica (2), cioè la tendenza delle élites (risorgimentali, azioniste, repubblicane, ecc.) a vedere nel popolo una massa indistinta da educare e rieducare.
In questa “democrazia del pubblico” come la definisce Bernard Manin, si pone il problema della rappresentanza, rappresentanza senza (i partiti) e oltre (le forme classiche della democrazia rappresentativa).
Questo tema, in un mondo in cui l’identità sociale diventa sempre più debole, e le istanze collettive sempre più difficili, interroga tutti. È l’intera classe dirigente e le strutture di intermediazione sociale che vengono messe in discussione.
Il riprendersi dell’attrazione della democrazia diretta è anche figlio della profonda mutazione tecnologica che, con la rete e in generale la rivoluzione informatica, annulla (sembra annullare) tempo e spazio.
Internet cancella le distanze fisiche, presentifica il mondo e la sua storia rendendo tutto disponibile nello stesso momento (e quindi degerarchizzando le priorità e rendendo marginale se non inutile l’intermediazione degli intellettuali e degli esperti).
Dall’altro lato vediamo una sempre maggiore difficoltà di individuare “chi” rappresentare. Le classi, i ceti, sono rimescolati, sempre più difficili da definire ed individuare… È quindi tutto il sistema della rappresentanza ad essere messo sotto pressione, a cui si chiede una profonda revisione di strumenti e modalità.
In questo senso la recente polemica governo/parti sociali pone un problema molto più profondo di uno scontro sui contenuti e forse anche più rilevante della archiviazione del sistema della concertazione che lo stesso Prodi ha dichiarato obsoleto.
Renzi coglie, come spesso gli accade, un sentimento di fondo della popolazione. Tutto il processo di formazione delle scelte che passava per la mediazione con le forze di rappresentanza è saltato. Anche perché, nella percezione dei cittadini, queste forze sono sempre più omologate alla politica. Il mondo cambiato, il mondo precario, la società dell’incertezza e del rischio, non trovano in loro la capacità di esprimerne le esigenze. La nuova generazione che ha preso le redini del governo lo ha colto perfettamente. È in qualche modo un cambio di paradigma. Tuttavia la rappresentanza di realtà “liquide” è molto complessa.
E qui sta una parte della differenza, questa volta non solo comunicativa, ma sostanziale, tra Berlusconi e Renzi. Se molti aspetti sembrano simili e viene spontaneo paragonare il 1994 al 2014 (suggestivo anche il fatto che si tratti di un ventennio), le differenze sono invece a nostro parere assai rilevanti. E forse la più importante è proprio relativa alla rappresentanza. Se Berlusconi ha dato voce ad un “blocco sociale” non certo evanescente, che lo ha sostenuto in fondo almeno sino alle ultime elezioni politiche, Renzi non rappresenta un blocco, ma una realtà appunto liquida, destrutturata. Rappresenta i nuovi ceti, che stentano a darsi forme organizzative solide, e che forse non le vogliono. Ciò significa che l’ampio consenso di cui il Presidente del Consiglio gode, è anch’esso in qualche modo fluido, facilmente revocabile. Questo Renzi sembra saperlo, anche perché si muove in un’acqua che conosce, quella della sua generazione. Cui sta dando risposte, o perlomeno abbozzandole. E al momento le risposte che dà sembrano soddisfare anche le generazioni più mature, che hanno archiviato i riti della politica della prima e della seconda Repubblica, e che forse, come ha acutamente notato Belardelli sul Corriere della Sera, vivono un profondo senso di colpa verso i giovani. La velocità e lo spiazzamento, il superamento dei barocchismi, anche nel lessico diretto, sono carte forti. Ma che, appunto, non si possono smettere di giocare.
(1) Nadia Urbinati, Democrazia in diretta – le nuove sfide della rappresentanza Feltrinelli, Milano 2013, pag. 11
(2) G. Orsina, Il berlusconismo nella storia d’Italia, Marsilio, Venezia, 2013
* Direttore divisione politico-sociale, Ipsos Public Affairs