Un discorso su Web, violenza e responsabilità

polemiche

Il mondo si divide in due categorie: chi ha un pubblico e chi non ce l’ha. Non ci sono tante vie di mezzo.

I primi sono una piccola minoranza del Paese. Sono gli opinionisti e i giornalisti che pubblicano ogni giorno i loro articoli in contenitori di informazioni, non importa se di carta o di pixel, che mettono le proprie opinioni sui social network all’attenzione di migliaia di followers o che le esprimono nei tanti talk show che popolano i palinsesti televisivi.

I secondi sono la maggioranza delle persone. Sono quelli che leggono gli articoli e le opinioni dei primi, quelli che assistono ai loro dibattiti (o monologhi) nei talk show e che quei dibattiti o monologhi imitano, soprattutto nei toni, sui social network, esprimendo i loro pensieri o sfogando le proprie rabbie e frustrazioni quotidiane usando strumenti retorici come l’ironia, il sarcasmo, il cinismo e la polemica.

I secondi chiamano i primi per nome e cognome, privilegio concesso loro da una effettiva, seppur univoca, frequentazione quotidiana. I primi invece chiamano i secondi “popolo del web” e di tanto in tanto, quando la temperatura del brusio di fondo che questo popolo genera online supera il livello di guardia, lo stigmatizzano e lo accusano delle peggiori bassezze e mostrificazioni.

Negli ultimi giorni il termometro di quel rumore di fondo si è impennato, e alcuni dei componenti della prima categoria hanno rispolverato una polemica che ormai è un grande classico del dibattito pubblico in Italia. Si tratta di una polemica che ha come bersaglio le opinioni dei secondi, accusate di essere sadiche, crudeli, superficiali, di rappresentare il sintomo di un costante e inarrestabile imbarbarimento della società. 

E fin qua, tutto bene, o quasi. Il problema è che queste rituali polemiche dei primi arrivano con fantastica puntualità a battere dei tasti sbagliati e pericolosi, tasti che danno sempre la solita melodia, una melodia banale che suggerisce — in modi più o meno velati — che queste dinamiche sono la prova che Internet è uno strumento potente e molto pericoloso, che richiede un senso di responsabilità e una competenza che, secondo i primi, avrebbero soltanto i «professionsti dell’informazione», ovvero loro stessi.

Molte delle parole che ho appena citato le ho lette a pagina 27 del Corriere della Sera di venerdì 7 marzo, in un articolo firmato Beppe Severgnini. Si tratta di un articolo in cui l’opinionista del Corsera ha duramente commentato le reazioni del “popolo del web” alla notizia dell’incidente in scooter di Fiorello, avvenuto il 3 marzo scorso, incidente in cui sono rimasti feriti in modo abbastanza serio sia Fiorello, l’investitore, che un anziano pedone, l’investito.

Scrive Severgnini, dopo aver citato alcuni esempi della barbarie del popolo del web:

Sadici? Crudeli? Superficiali? Forse rappresentanti di quell’1% di inclassificabili che, secondo il presidente di Google, Eric Schmidt, popola la Rete? Non è così. Si tratta, quasi certamente, di persone normali. Semplicemente, non sanno quello che fanno.

Poi insiste:

Internet ha messo nelle mani di tutti strumenti che, fino a pochi anni fa, erano riservati ai professionisti dell’informazione. Oggi chiunque può esprimere un commento in grado di arrivare dovunque in pochi secondi. […] Internet è una magnifica invenzione; ma è anche uno strumento potente che richiede comportamenti responsabili. C’è chi ha deciso di prendersi la potenza e rinunciare alla responsabilità. 

E infine chiude:

Esiste l’utente adulto e l’utente adolescente: è una questione di maturità, in questo caso, non d’età. La banalità di tanti argomenti, lo squallore di certi commenti, l’ironia fuori luogo, la cacofonia delle battute squallide: sono tutte prove della minore età della Rete. Stiamo imparando a usarla, come s’impara a usare un nuovo, fantastico macchinario. C’è chi aspetta di capirne il funzionamento, e chi rischia di fare e farsi male.

Dal discorso di Severgnini emergono un paio di cose interessanti.

La prima è una sorta di paura, una paura che affligge gli esponenti della prima categoria di persone in cui si divide il mondo, quelli che il pubblico ce l’hanno: è la paura di perderlo, anzi, ancor peggio, è la paura di perdere la propria rendita di posizione e di dover affrontare un mondo in cui tutti sono voci e quindi non lo è nessuno, un mondo in cui tutti sono contemporaneamente pubblico e opinionista.

La seconda è l’assoluta mancanza di autocritica, una sorta di cecità che gli impedisce di accorgersi della malattia che affligge i suoi simili, quelli della prima categoria. Perché se è vero — ed è verissimo — che internet è uno strumento potentissimo e che richiede un gran senso di responsabilità, è altrettanto vero che in questo momento storico quelli che mancano di responsabilità e che rischiano, più che di farsi del male, di fare del male sono quelli della prima categoria, sono i giornalisti e gli opinionisti che non sanno interfacciarsi con la Rete.

Un piccolo e glorioso esempio di questa grottesca incapacità ci è stato offerto da un bel po’ di testate di un certo livello proprio ieri. Ieri infatti, purtroppo, è morto Manlio Sgalambro, un personaggio veramente complesso, un filosofo che non ha studiato filosofia, geniale paroliere che scrisse un sacco di canzoni potentissime insieme a Franco Battiato, una personalità di una profondità e (e diciamolo, di una pesantezza) rara e molto preziosa. Ma Sgalambro, oltre ad essere persona complessa, era anche abbastanza schivo, riservato, e fuori dalla luce dei riflettori: soltanto conoscendolo in modo approfondito ci si poteva sentire in grado di scriverne un ricordo (e questo è il motivo per cui noi, su LKcultura, abbiamo deciso di non farlo).

Quel che è successo ieri, però, è stato che un sacco di giornalisti, letta la notizia della sua morte, desiderosi di piazzare l’articolo-ricordone-acchiappaclick si sono subito lanciati alla ricerca di quel briciolo di informazioni che basta per cucinare un pezzettino dignitoso con un paio di video, lanciarlo sui social network e godersi un po’ di click a basso costo. In parole povere, sono andati tutti a leggersi la pagina di Wikipedia.

E fin qui tutto bene, sarebbe ipocrita dire che non bisogna cercare informazioni su Wikipedia. Lo facciamo tutti, costantemente, l’importante è sapere che quelle informazioni spesso vanno vagliate, soprattutto quando — come ieri — suonano un po’ dubbie. Ed è proprio su quest’ultima accortezza — il fact-checking — che in molti si sono incrodati. E infatti, come spiega per bene Paolo Attivissimo sul suo blog e Gigio Rancillo su Avvenire, diversi giornali (Corriere, Repubblica, Panorama, Pagina99 e chissà quanti altri), scopiazzando la pagina Wikipedia dedicata a Manlio Sgalambro, hanno scritto delle cagate pazzesche.

Presi dalla foga di arrivare per primi, i “professionisti dell’informazione” che hanno scritto quegli articoli non si sono fermati davanti a nulla, nemmeno quando hanno letto le righe che accreditavano quel geniale e profondo pesantone di Manlio Sgalambro come autore di alcune delle canzoncine più frivole e leggere della storia occidentale degli ultimi trecento anni: da Fra Martino Campanaro a Madama Dorè. Niente, a nessuno è venuto in mente di controllare la veridicità di quelle informazioni, han fatto tutti il gesto del “ctrl C ctrl V”, detto anche del copia incolla, e hanno pubblicato.

Capite bene che quindi, leggendo Severgnini che scrive che «internet ha messo nelle mani di tutti strumenti che, fino a pochi anni fa, erano riservati ai professionisti dell’informazione» (come se internet fosse una testata nucleare e “tutti” siano i libici di Ritorno al futuro) viene seriamente da pensare che la sua sia una battaglia di retroguardia.

Ed effettivamente lo è, la battaglia contro l’uso violento dei social network è una battaglia di retroguardia, una inutile, logorante e dannosa battaglia di retroguardia.

Primo: perché il mondo online è il riflesso del mondo offline, e se a un sacco di gente viene naturale di augurare la morte a un VIP o a un politico con tanta facilità e disinvoltura, il problema non è se lo fanno al bar, sul muro del cesso di un autogrill o su Twitter, il problema è che lo fanno, e che sono sempre di più. E certamente la soluzione non è chiudere i bar, chiudere i cessi degli autogrill o chiudere Twitter. 

E non basta nemmeno spegnere il computer, bisogna aprire un attimo il proprio orizzonte mentale e capire che in giro c’è del disagio profondo e che magari un briciolo di responsabilità sui toni e sui modi aggressivi, violenti e rabbiosi che la gente usa di questi tempi è proprio di quelli della prima categoria in cui il mondo si divide: i giornalisti, quelli che il pubblico ce l’hanno.

Perché, sarà banale dirlo — ma forse non è inutile — una delle principali modalità di riproduzione dei gesti, dei modi e dei toni della comunicazione umana è l’imitazione. 

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