Ci sono pochi autori che possono raccontare come sui volti degli uomini, un tempo perfettamente lisci, le cavità siano state segnate dalle lacrime di dolore, senza farti pensare d’istinto «ehi ciccio guarda che non sono mica una matricola del Dams a cui devi levare le mutandine». Gipi è uno di questi.
Unastoria è uno dei migliori libri che abbia letto nell’ultimo anno, ed è quindi con un certo stupore che ho appreso la notizia prima della sua candidatura e poi della sua entrata nella rosa ristretta di dodici titoli del premio Strega. Questo perché normalmente equiparo le fascette dei premi letterari ai puntini bianchi sul cappello dei funghi velenosi: il modo con cui l’ecosistema libraio mi comunica ciò da cui devo stare alla larga.
Mi rendo perfettamente conto che, per il gioco dei grandi numeri e delle anomalie della matrice, qualche volta può capitare l’accidente di un bel libro che vinca un premio e che io, muovendomi fra gli scaffali come un erbivoro timoroso dei grandi predatori editoriali, rischi di perdermelo. Eppure l’anarchico andare per librerie alla ricerca di un nuovo amore in mezzo a selve di carta ingiustamente strappata al suo destino di albero, e la sensazione di profonda comunanza umana che avverto quando scopro di potermi fidare dei consigli letterari di un amico, sono piaceri che ritengo, chissà perché, superiori rispetto alla cieca fede nell’indicazione degli avidi colossi dell’industria del libro. E poi toglimi il passatempo di cercare bei libri e di procurarmi, le volte che scopro un autore interessante, tutta la sua opera compresi i quaderni delle medie, e l’unico piacere che mi rimane è chiamare la polizia quando i bambini che giocano nel cortile sotto casa fanno troppo casino.
Per tutti questi motivi, più il mio odio per la palla avvelenata, ora che nella rosa del più importante premio letterario italiano c’è Unastoria ringrazio di averlo già letto. In realtà questo articolo mi gira in testa da qualche mese, ci ho messo un bel po’ a decidermi a scriverlo perché Gipi è un mio amico e inizialmente mi sono posto delle questioni di opportunità, spazzate infine via dalle quattro-cinque volte in cui ho riletto Unastoria ricevendo la stessa disarmante sensazione: la consapevolezza di essere di fronte a uno di quei libri in grado di parlarti con essenzialità, pulizia e poesia delle grandi forze che scorrono sotterrane nella vita.
Unastoria è un libro che ti “colpisce nell’anima”, il che ovviamente è un’espressione orribile perché io non ho la stessa capacità che ha Gipi di evocare cose enormi senza rimanere schiacciato sotto il loro peso. L’autore pisano di “disegnetti” riesce nel compito di arrivare in fondo, al nocciolo resistente dell’esistenza, con un grado di efficacia decisamente superiore alla maggioranza degli scrittori italiani, notoriamente troppo impegnati a mostrarsi profondi e seriosi e a fare pubblico sfoggio dell’ottima fattura artigianale del loro ombelico, per ricordarsi anche di raccontarestorie .
Non è nemmeno del tutto colpa loro: è la cultura letteraria italiana che è così da sempre. Secondo la leggenda (e anche secondo una ricerca di qualche anno fa) l’80% dei manoscritti che gli italiani – noto popolo di analfabeti di ritorno sì, ma amanuensi indefessi – inviano alle case editrici non contengono tracce di storie. Il fatto è che sin da bambini qui da noi s’insegna a scrivere cose come le emozioni che lo scorrere delle nuvole genera nel nostro animo, piuttosto che a raccontare la storia di tuo nonno che picchia il suo cane con un bastone.
Nonno che picchia il cane con un bastone? Come? Perché? Come va a finire? Dimmi di più!
Non proprio il genere di reazione che ti prende incontrollabile quando leggi l’ennesima quarta di copertina sulla quarantenne romana di sinistra figlia di miliardari che ha improvvisamente perso se stessa e yawn (sbadiglio)…
In Unastoria,invece, succedono delle cose, cose relativamente piccole che però messe assieme assumono mano a mano un significato enorme, e sempre in una maniera che arriva inaspettata e mai didascalica come un interminabile monologo di 15 minuti sul fatto che la cosa più bella delle vita siano le zinnette della tua amica del mare che hai visto da adolescente.
Ho avuto la fortuna di vedere Unastoria prima ancora che fosse terminato. Gipi è uno che di solito parla con accento pisano ed è tutto un “Boia deh”, ma quando ha incominciato a leggere le tavole dallo schermo del computer è passato di colpo all’italiano dei doppiatori assumendo un’intonazione che non gli ho sentito usare mai più. Immagino che per lui quella sia la voce da storia. Per la cronaca è qualcosa al tempo stesso solenne ma accogliente, impostata e un po’ fuori moda come un libro con la sovracoperta ma anche autentica come una persona che fa sempre un po’ fatica a sentirsi chiamare artista. Il libro allora si fermava alla tavola dell’albero spoglio e abbandonato nella terra di nessuno fra due trincee della prima guerra mondiale che parla dicendo «è la modernità che ce lo domanda».
Era stupenda e sapevo che da qualche parte nella stanza doveva esserci l’originale. Come si fa di solito di fronte alla muta magnificenza dell’arte, ho pensato: «Adesso gli do una botta in testa e gliela rubo. La macchina è parcheggiata qua fuori, ce la faccio». Invece gli ho chiesto come sarebbe finita la storia, ma Gipi ancora non lo sapeva. Quell’albero, che poi è finito in copertina, mi ha ricordato Il biancospino del Conte Eberardo, la poesia di Uhland in cui attraverso il rametto di una pianta il poeta parla dell’intera vita di un uomo. Wittgenstein la considerava un ottimo esempio della differenza fra mostrare e dire, distinzione fondamentale perché per il filosofo austriaco le cose davvero importanti, fra cui l’etica, si potevano solo mostrare, non teorizzare, né tanto meno farci un comizio. I disegni di Gipi fanno esattamente la stessa cosa con la materia della vita, ne mostrano la parte nascosta eppure familiare, evocano forze universali con un tratto incisivo e mai compiaciuto. Anche Heidegger, come Wittgenstein, giunse molto avanti nella sua carriera, seppur per altre vie, alla conclusione che l’unica chiave d’accesso al mistero dell’essere fosse contenuta nel linguaggio, e più nello specifico nella poesia. Se ne convinse a tal punto che incominciò a cimentarsi con i versi. Sfortunatamente per lui, però, non era molto dotato. Un giorno andò in visita da un suo ex allievo che abitava sul mar Baltico e gli diede le sue poesie pregandolo di leggerle quella sera stessa. L’indomani gli chiese cosa ne pensasse e quello, con l’amorevole convivialità dei tedeschi del nord, rispose «Lì c’è la stufa».
Non che a Gipi l’abilità di entrare in contatto con le grandi forze dell’esistenza tramite il disegno non sia costata lavoro. C’è un oggetto che ha attraversato la sua vita come il biancospino di Uhland, si tratta di un libro che una turista americana perse su un treno sul sedile di fianco a quello dove era seduto lui, trent’anni fa. Era un testo in inglese che insegnava come disegnare usando la parte destra del cervello per riuscire a vedere e riprodurre l’essenza degli oggetti. A vent’anni Gipi non conosceva l’inglese ma decise di tenerlo. Miracolosamente il libro sopravvisse a tre traslochi, finché, circa quindici anni e un po’ di studio dell’inglese dopo, lo lesse e rivoluzionò il suo modo di dipingere. Disegnò infinite volte soggetti naturali come gli alberi, finché non riuscì a vederne “l’essenza”. Aggiungici l’esperienza, il talento e gli ottimi testi a cui molti non badano quanto dovrebbero solo perché sono dentro dei balloon e il risultato è che oggi, a cinquant’anni, Gipi sta in fondo al suo percorso narrativo. Quello che parte dalla semplicità pura, bambinesca, passa attraverso la complessità per la complessità, il barocco che una volta era prerogativa degli esordienti e oggi invece è dei “maestri”, e infine, nei rari casi di quelli bravi davvero, arriva a una semplicità nuova che è il frutto prezioso di tutto il percorso. L’essenziale che raccoglie il complesso, la pura potenza evocativa, o come mi piace chiamarla: l’equivalente narrativo dei kalashnikov nelle guerre tribali.
Per questo in fondo a Unastoria la firma recita “Gipi 1963-2013”: perché ci ha messo cinquant’anni a imparare a disegnare così. Al quadro che descrive Unastoria, oltre alla presenza di un plot semplice ma solido e alla capacità di mostrare ciò che sta nel profondo della vita attraverso il mero e ineluttabile accadere dei suoi fatti, è necessario aggiungere ancora un prerequisito fondamentale, un minimo comune denominatore, che Gipi coltiva quasi come un ossessione: l’onestà nei confronti della propria arte.
Gipi è uno che non scriverebbe mai un libro in cui non crede solo per incassare l’anticipo e la sua preoccupazione principale è mantenere aperta la comunicazione con le forze che ispirano la sua creatività: uno sforzo etico semplicemente di altri tempi, che però poi finisce per trasparire in ogni singola tavola. Non è una forma di ortodossia fine a se stessa, ma la consapevolezza che un artista può scendere a un’infinità di compromessi, tranne quello di non essere onesto con sé stesso. Per questo in una competizione dove come ogni anno si sa già in partenza il probabile vincitore (che non sarà uno che pubblica per Coconino-Fandango), Gipi faccio fatica a vederlo, ma scommetterei abbastanza serenamente che non si aggiungerà alla lunga lista degli scrittori che mendicano voti ai giurati offrendo favori e lealtà eterna.
La sua candidatura allo Strega, una pensata comunque abbastanza geniale della casa editrice, ha anche acceso delle polemiche sull’opportunità di inserire un fumetto, o come preferiscono gli opinionisti chic una “graphic novel”, in mezzo ai romanzi classici.
Ho chiesto a Gipi cosa ne pensasse del dibattito. «Formalmente hanno ragione» mi ha detto, credo dopo un “Boia, deh”. «Dall’altra parte però» ha aggiunto «è anche vero che quando leggi un romanzo quello che vedi sono immagini, non è poi così diverso».
Mi ha fatto pensare a Terrore dal mare, un libro di reportage sulle navi oceaniche di William Langewiesche che sto leggendo in questi giorni. Qualche notte fa ero alle prese con il naufragio di un mercantile al largo della Galizia e la minuziosa e avvincente descrizione dei tentativi dell’equipaggio di salvarsi. Quando ho chiuso il libro mi sono stupito per un momento di trovarmi in camera mia, nel centro di Bologna, Italia. Ho guardato il mio Velux che perde, le montagne di vestiti da lavare, quella ancora più alta degli appunti di lavoro, l’orologio che segnava le 4 del mattino e per un momento mi è quasi mancato l’oceano. O almeno quel punto di osservazione sospeso a mezz’aria da dove, al sicuro, osservavo l’evolversi della situazione.
La potenza della letteratura è tutta qua, sta nella capacità di evocare mondi, di parlarci delle cose che ci accomunano e di quelle che ci dividono, di chiarificare qualcosa su di noi, sulla nostra natura e di farlo raccontando storie. Un recente saggio di Jonathan Gottschal, L’istinto di narrare, le storie ci hanno reso umani, parla proprio del bisogno umano di raccontare la propria condizione, esorcizzare quell’infinito susseguirsi di problemi intermezzati da qualche gioia che conosciamo anche con il nome di “vita”.
Unastoria è una sequenza coerente e incalzante di fatti umani, immagini stupende che corrispondono a una scrittura raffinata e vicina, radicalmente umana ma piena anche d’impietosa verità e, al tempo stesso, di speranza per nulla a buon mercato.
Se non è un romanzo questo, allora non so cosa lo sia.