Il problema non era il cartello degli armatori, quello, anzi, non c’è prova vi sia mai stato. I problemi, quelli accertati, sono stati prima gli anni di spese pazze della Tirrenia e poi quelli del “risveglio”, quelli della crisi economica più violenta che si ricordi nel Dopoguerra.
A sostenerlo, questa volta, non è chi scrive (lo feci un anno fa), bensì sono i tre giudici del Tar Lazio che la settimana scorsa hanno totalmente demolito l’istruttoria alla cui conclusione, lo scorso giugno, l’Antitrust aveva comminato oltre 8 milioni di euro di multe a Moby, GNV, Snav e Marinvest, compagnie marittime accusate di aver violato le norme sulla concorrenza per architettare il cosiddetto caro-traghetti dell’estate 2011, quando gli italiani si resero conto che la vacanza in Sardegna non era più a portata di tutte le tasche.
A finire sul banco degli imputati dell’Antitrust, trascinati da associazioni di consumatori e da politici in cerca di demagogico consenso, in primis l’ormai ex governatore sardo Ugo Cappellacci, furono appunto le summenzionate compagnie. Ma, scrivono i giudici, «non vi è qui la prova diretta della concertazione, sicché se ne dovrebbe individuare quella indiretta, basata su specifici indizi, gravi, precisi e concordanti, i quali dimostrino che quel dato comportamento parallelo sul mercato non può spiegarsi altrimenti che con una concertazione». Prova del tutto mancante secondo il Tar, dal momento che «l’Antitrust non è riuscita effettivamente a dimostrare, nemmeno per presunzioni, la fondatezza della sua tesi».
I Traghetti Audacia (Gnv) Maria Grazia On. (Moby) a Genova, in partenza per la Sardegna nel 2009
I giudici, però, hanno fatto di più, perché la sentenza, pur lungi «dall’affermare che sicuramente non vi fu una pratica concordata», dimostra come l’aumento delle tariffe verificatosi dal 2011 è perfettamente spiegabile nell’ambito delle dinamiche economiche del mercato in questione. Gli elementi citati a sostegno di questa tesi sono diversi, dalla situazione di perdita in cui operavano le compagnie accusate all’abituale pratica di monitoraggio e imitazione dei prezzi della concorrenza, dal caro-carburante rilevato dalla stessa Antitrust al calo della domanda dovuto alla crisi. Fino – ed è forse l’aspetto più interessante, perché chiama in causa, stigmatizzandolo di fatto, l’intervento pubblico nel settore negli ultimi 20-25 anni – agli effetti distorsivi del naturale meccanismo di formazione delle tariffe causati, negli anni precedenti il 2011, dalla presenza della Tirrenia pubblica, effetti venuti meno proprio quando, alla metà del 2010, fu dichiarato lo stato di insolvenza di Tirrenia e avviata la sua privatizzazione. «Questa (la Tirrenia, nda) aveva svolto per lunghi anni il trasporto marittimo anche con la Sardegna a prezzi decisamente contenuti, e ormai ragionevolmente non più praticabili».
Il trasporto a basso costo per la Sardegna, cioè, è stato un lusso pagato fino al 2011 dal contribuente, lusso che, dati i tempi, non possiamo più permetterci.
Detto ciò, c’è un altro aspetto significativo della sentenza della scorsa settimana, seppure meno evidente. I giudici infatti, mettendo nel mirino la metodologia adottata dall’Agcm per la sua istruttoria, sembrano adombrare più d’un sospetto sul fatto che essa sia stata condotta sulla scorta di interessi politici alimentati da comportamenti demagogici come quello della Regione Sardegna. Scrive infatti il Tar, ad esempio, che l’indicatore su cui l’Antitrust ha basato la propria iniziativa (ricavo medio unitario) «ha certamente un cospicuo interesse economico – e evidentemente anche politico, data la rilevanza dei collegamenti tra Sardegna e Italia continentale – ma non sembra determinante, quando si debba appurare l’esistenza di un preventivo coordinamento tra gli operatori economici che forniscono i servizi di trasporto in questione». E, in conclusione, i giudici scrivono significativamente che «l’interesse pubblico al mantenimento delle preesistenti tariffe non può minimamente interferire con la necessità di un rispetto di ineludibili principi in materia di ripartizione dell’onere della prova».
Insomma, dice il Tar, non si possono piegare mercato e giustizia ad interessi politici. Il problema è che lo si è fatto per almeno tre anni e a qualcuno ora toccherà pagare i danni.
Le azioni messe in campo dalla Regione Sardegna per fronteggiare l’inesistente cartello armatoriale, infatti, rischiano di avere gravi conseguenze per le tasche del contribuente. Ora che la magistratura ha sancito che il cosiddetto “cartello degli armatori” è stata tutta un’invenzione, bisognerà infatti capire come finiranno i contenziosi aperti per concorrenza sleale contro Saremar, la compagnia della Regione Sardegna che nelle estati 2011 e 2012 mise in piedi un paio di collegamenti fra l’isola e il continente, nel tentativo – parole dell’allora governatore Ugo Cappellacci – di «spezzare il giogo armatoriale che soffoca l’isola».
Il traghetto Dimonios della Saremar
Tutti sanno come è andata a finire: i prezzi del trasporto ne hanno risentito poco e niente, le compagnie private hanno continuato a registrare perdite negli anni in questione e l’impresa di Saremar si è rivelata un bagno di sangue per il contribuente, con passivi ingenti, procedimenti giudiziari di ogni tipo a carico della compagnia regionale e una multa della Commissione Europea, comminata pochi mesi fa, che le impone la restituzione di quasi 11 milioni di euro di aiuti di Stato.
Un quadro che, come detto, ora potrebbe ulteriormente peggiorare, perché contro la presunta concorrenza sleale di Saremar sono pendenti i ricorsi giudiziari degli armatori privati, Gnv in testa. Che, presumibilmente, faranno leva sulla recente pronuncia del Tar, dal momento che Saremar decise di operare i collegamenti continentali per far fronte al cartello armatoriale: non esistendo tale cartello e non essendoci neppure elementi concreti per supporne ragionevolmente l’esistenza, è evidente che la concorrenza portata da Saremar fu quanto mai sleale, sicché è sensato pensare che le richieste di danni verranno accolte, con ulteriore decremento della situazione della compagnia regionale (che peraltro la Regione avrebbe ex lege dovuto privatizzare già parecchi anni fa), a questo punto più che mai a rischio fallimento.
Non è quindi un caso che il neo assessore regionale ai trasporti sardo Massimo Deiana, dopo aver stigmatizzato la gestione della precedente amministrazione in tema di collegamenti marittimi, abbia nei giorni scorsi annunciato non solo l’intenzione di ricorrere contro la sentenza del Tar (la Regione era intervenuta ad opponendum nel procedimento), ma anche la volontà di chiedere per Saremar il ricorso ad una procedura concorsuale. Azione evidentemente tesa a salvaguardare l’attività di servizio pubblico cui dovrebbe essere esclusivamente chiamata la compagnia (i collegamenti interni con le isole minori), dal momento che, qualora accolta, tale procedura renderebbe più complessa l’esecuzione di vendite forzate delle navi di Saremar, probabilmente l’unico modo di soddisfare i creditori qualora la compagnia fosse condannata in via definitiva a Bruxelles e in Italia. Oltre che i contribuenti, che hanno tenuto in piedi la compagnia, a rimetterci, quindi, saranno anche i creditori.