Singoli imprenditori contro storiche famiglie. È un gran bel match – senza esclusioni di colpi – quello che si sta svolgendo all’ombra della Madonnina tra giapponesi e cinesi sul fronte del food. Doverosa premessa: i primi locali cinesi nacquero già negli anni ’60, a seguito della seconda grande emigrazione – la prima avvenne negli anni della Prima Guerra Mondiale – che portò numerosi immigrati a improvvisarsi cuochi in mancanza di altri lavori. Ben più recente la nascita dei ristoranti giapponesi: non ci sono certezze ma sta di fatto che nell’89 apriva il Poporoya, sushi bar – tuttora attivo – derivante dalla trasformazione di un negozio aperto una dozzina di anni prima. Di riso e sushi ne sono passati lungo il Naviglio, con l’onda giapponese che pian piano è andata a fermare– soprattutto nella fascia medio-alta – il dominio indiscusso dei posti cinesi che per decenni sono stati sinonimo di qualità mediocre e prezzi bassi. Salvo lodevoli eccezioni. Ma è dal 2000 in poi che è iniziato il vero divertimento.
Da un lato, i cinesi hanno capito che per battere un nemico più bravo e più attento ai gusti italiani, c’era una sola soluzione: mettersi a fare cucina giapponese, tradizionale o innovativa che sia. Ed ecco spiegato perché le grandi famiglie – non di rado legate tra loro con matrimoni – hanno massicciamente investito sul know-how. Milioni di euro per nuovi locali o trasformazioni di quelli vecchi, maggiore attenzione a materia prima e qualità, assunzione di cuochi da Hong Kong (costosissimi ma i migliori per le cucine asiatiche) e persino di maestri nati in Giappone. Per i ristoratori cinesi avere a stipendio (caro s’intende) un sushi-man è come per un presidente di una squadra di serie B poter schierare un brasiliano in porta. Un lusso, un godimento quotidiano.
(Sean Gallup/Getty Images)
In più, i cinesi nati o almeno cresciuti nel nostro Paese, hanno una marcia in più. Lungi dalla filosofia furbetta dei poveri (illustrata dalle insegne “cino-giapponese”), stanno recuperando la tradizione pura – nella sua classe – oppure hanno spostato il paletto e abbandonando la cantonese classica hanno creato le varie “asian contemporary food”, “asiatic cuisine” , “asian fusion” e via dicendo. Senza scordare che in più di un caso servono serenamente piatti giapponesi, senza far brutte figure.
La risposta del Sol Levante? Alzare ulteriormente il livello. Anche se resiste il mito dei sushi-man che aprono il localino, dopo aver fatto esperienza nei grandi ristoranti – e in questo Nobu-Armani, tra notevoli alti e bassi, ha comunque scritto la storia – è tempo di signori imprenditori che finanziano valide operazioni. È il caso di Zazà Ramen, nuovo tempio del piatto popolare giapponese, dove uno dei soci è Kevin Ageishi, imprenditore della moda e da venti anni a Milano. Ma piace molto anche il Fukurou aperto da Noriyuki Haga, ottimo pilota della Superbike (43 vittorie) e nella classe 500 del Motomondiale: appeso il casco al chiodo e sceso dalla Brianza – dove viveva da anni – ha aperto questo locale di cucina giapponese tradizionale, curata da un ottimo chef quale Yoshizaku Nimomiya. In largo Corsia dei Servi – giusto a metà tra il Duomo e San Babila – ha debuttato Sampei, 400 mq su più livelli, voluto da Shintaro Akatsu, imprenditore da sempre amante dell’Italia, attivo in più settori a partire dalla moda (importa vari marchi italiani) e dal food: dal 2009 è socio di maggioranza di Grom in Giappone. Ora a 52 anni, una sfida interessante: un locale in stile “total Japan” dove a piano terra il personale è vestito da Sampei (ossia il giovane pescatore, protagonista di un manga tra i più famosi) e serve l’aperitivo mentre in quello superiore si mangeranno piatti classici, anche intorno alla cucina a vista.
Va sottolineato che è in crescita il numero dei giapponesi che vogliono dedicarsi alla cucina tricolore. Ci viene in mente una frase di Gualtiero Marchesi sul tema. «Adoro i cuochi giapponesi: sono ottimi allievi, umili e pronti sempre a imparare. Mi fanno solo imbestialire quando mi dicono che se tornano a casa vogliono aprire un posto di cucina italiana». Evidentemente il Maestro non avrebbe mai pensato a quelli che restano qui e non si dilettano in sushi e sashimi ma in paste e capresi. Persone come Hide Matsumoto, 46 anni, membro storico della brigata di Davide Oldani al D’O o Kokichi Takahashi – cresciuto alla scuola di Aimo e Nadia dove lavorava con la coppia Pisani-Negrini – che guida la cucina del Fresco, uno dei locali cult della nuova Milano golosa. Entro fine anno, sotto la Madonnina, saranno raggiunti da un altro sous-chef, che intende aprire il “suo” locale: Yoji Tokuyoshi, 37 anni, braccio destro di Massimo Bottura all’Osteria Francescana. Cosa proporrà? Piatti come il risotto alle tre salse: carbonara, amatriciana, cacio e pepe. Più italiano di così.