Se Facebook usa gli utenti come cavie

Se Facebook usa gli utenti come cavie

Il nodo di tutta questa vicenda potrebbe essere sintetizzato con la frase che apre un articolo pubblicato il 29 giugno sul sito del New York Times. Senza girarci troppo intorno e cercando di cogliere il nodo della questione, il quotidiano americano sentenzia così: “per Facebook siamo tutti topi da laboratorio”. Una giudizio tranchant che si innesta tagliente come una lama affilata, all’interno della polemica sollevatasi sull’esperimento messo in atto da Facebook, riguardante la manipolazione degli stati degli utenti.

Per chi ancora non lo sapesse si tratta di un esperimento psicologico effettuato sulle emozioni di quasi 700mila utenti — realizzato tra l’undici e il diciotto gennaio 2012 — che consisteva nell’eliminare dalla bacheca degli utenti (a loro insaputa) stati estremamente positivi o negativi, e vedere qual era il loro comportamento. Se in pratica il contesto che li avvolgeva sul social network poteva influenzare il loro stato d’animo proprio come succede nella realtà.

La ricerca realizzata appunto nel 2012, è stata pubblicata lo scorso marzo sulla presigiosa rivista scientifica Proceedings of the National Academy of Sciences. Tramite l’utilizzo di un algoritmo i ricercatori della Cornell University e della University of California nascondevano le parole o le immagini legate ai differenti stati d’animo. E il risultato sembra davvero aver funzionato, dato che la sintesi della ricerca ha dimostrato che “le emozioni espresse dagli altri utenti su Facebook influenza le nostre”. Che in poche parole può essere tradotto come: gli stati positivi generano stati positivi così come quelli negativi ne generano di negativi.

In realtà ciò che più di tutto ha fatto muovere le polemiche nei confronti del social network di Mark Zuckerberg, è la presunta mancanza di etica attraverso cui si è condotta tutta la ricerca. Se dal punto di vista della legalità sembra non ci siano grattacapi all’orizzonte per Facebook (il quale si è giustificato sostenendo che le condizioni contrattuali che ogni utente sottoscrive al momento dell’iscrizione consentono operazioni di questo tipo) dalla comunità tech si è levato un grido di indignazione relativo al fatto che secondo quanto sostengono da Menlo Park, basterebbe iscriversi a Facebook per diventare di fatto delle cavie.

Nel frattempo Adam D.I. Kramer, uno dei ricercatori coinvolti nell’esperimento, ha pubblicato un lungo post sul suo profilo in difesa del suo operato e di quello dei suoi colleghi: “per quanto riguarda la metodologia, la nostra ricerca ha cercato di indagare sulle emozioni degli utenti attraverso un meccanismo di gestione delle priorità dei post che eliminava una piccola percentuale di contenuti”. Quache dubbio di certo resta, e ciò che viene fuori da tutta questa storia è soprattutto la convinzione che Facebook sia sempre di più uno strumento invasivo che poco o niente ha a che fare con la creatura lanciata nel 2004 da Zuckerberg e compagni in una stanza di Harvard. Negli utenti, soprattutto i più giovani, manca la consapevolezza di aver a che fare con un catalizzatore di informazioni e abitudini personali da cui è scaturito un mercato globale a cui tutti partecipiamo. A volte anche inconsapevolmente.