Per i più ottimisti le elezioni del prossimo presidente della Federcalcio avrebbero dovuto somigliare alle primarie del 2012 tra Renzi e Bersani, quelle che sancirono il candidato premier del centrosinistra premiando il Pigi emiliano. Già pronti da settimane i paragoni roboanti in vista dell’11 agosto: il rottamatore Demetrio Albertini, 43 anni, contro l’uomo della “ditta” Carlo Tavecchio, 71 primavere. In realtà sarà un plebiscito dai risultati nettamente più rotondi delle primarie Pd. Stando agli accordi degli ultimi giorni Tavecchio avrebbe in tasca il 70% delle preferenze, ben oltre il 51 richiesto. A lui i voti di Lega Dilettanti, Lega Pro, Serie B e un’ampia fetta di serie A. Percentuali bulgare, tutto l’establishment o quasi. Un vantaggio schiacciante che ha il sapore di una vittoria certa, con buona pace di chi chiedeva tabula rasa dopo la disfatta azzurra in Brasile. Il sogno dell’ex centrocampista alla poltrona Figc dura il tempo di un volo pindarico, scaricato senza formalità dalle categorie che contano nel palazzo del calcio. Quello che Xavier Jacobelli definisce «l’inciucio dei Gattopardi».
Albertini-Tavecchio sarebbe stata una sfida generazionale e politica. Ventotto anni di differenza anagrafica, percorsi opposti. L’ex calciatore reinventato dirigente contro l’eterno ed esperto manager di scuola diccì, la rottura degli schemi contro la continuità. Un candidato che non è espressione di alcuna componente versus l’uomo d’apparato che da quindici anni governa la Lega Nazionale Dilettanti: 1,3 milioni di calciatori tesserati, 15mila società, 70mila squadre e un giro d’affari di 1,5 miliardi di euro. Eppure Demetrio non si è scomposto al momento della discesa in campo: «Voglio essere regista di un cambio, non sono un politico, sento la responsabilità verso chi mi ha proposto di metterci la faccia». A convincerlo i messaggi e le chiamate dal mondo del calcio, le pressioni dagli addetti ai lavori, gli attestati di stima della gente. Un fronte trasversale comprendente opinione pubblica e “società civile” che non voleva il candidato unico Tavecchio. Dal sindacato calciatori all’Assoallenatori fino ad Andrea Agnelli, lo sponsor più pesante (rimasto l’unico). Con Albertini marciano unite Juventus e Roma, mentre le altre società hanno deciso di convergere sul favorito. Barbara Berlusconi ad esempio avrebbe optato per il quarantenne, ma in casa Milan le decisioni di politica sportiva le prende Galliani, sostenitore di Tavecchio.
(Claudio Villa/Getty Images)
Rottamatore, ma con giudizio. Nella “guerra lampo” lanciata da Tavecchio per raccogliere le preferenze, Albertini ha pesato i passi da fare e le parole da scandire. Ha provato a capire se ci fosse una quota minima di consenso trasversale da cui partire senza esporsi a figuracce. Ha studiato la sostenibilità del progetto di rinnovamento del Palazzo, tanto ambizioso quanto difficile da realizzare in una selva di schemi consolidati e veti incrociati di una Federazione difficile da imbrigliare. L’enfant prodige della Figc ha valutato pure le prime bordate sotterranee arrivate a margine della candidatura: «Per alcuni sono solo un calciatore…». Il passato non si dimentica: quasi 400 presenze tra Milan e Nazionale, oltre alle maglie di Lazio, Atalanta, Padova, Atletico Madrid e Barcellona. Vent’anni a correre dietro il pallone, otto e chissà quanti ancora seduto alla scrivania. «Il mio percorso è stato da calciatore ma un terzo della carriera l’ho fatto con giacca e cravatta».
L’Albertini dirigente è stato vicecommissario straordinario della Figc, presidente del Club Italia e dal 2007 vicepresidente della Federcalcio, con annesso ruolo di capodelegazione della Nazionale Italiana. Numero due di Abete, in prima linea nella buona e nella cattiva sorte. Scorie del post-calciopoli comprese. Alla vigilia dei mondiali brasiliani ha annunciato le sue dimissioni, partendo comunque alla volta del Sudamerica dove la figuraccia ha travolto pure lui. I motivi dell’addio? Veti incrociati e immobilismo che gli hanno reso impossibile lavorare come avrebbe voluto. Quegli stessi ostacoli sono tornati a turbargli il sonno prima di decidere di candidarsi ufficialmente alla Federcalcio. Settimane di melina e tentennamenti. Bisognava coagulare un buon numero di consensi ma, cosa più importante, l’ex centrocampista temeva di rimanere imbrigliato nei medesimi meccanismi che ha imparato a conoscere dall’interno. A maggior ragione adesso che il mandato del prossimo presidente Figc dovrebbe essere quello delle grandi riforme. Il tutto in un panorama dove regnano il diritto di veto e la frammentazione del consiglio federale.
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Alla fine il cuore fa capolino oltre l’ostacolo, ma l’illusione di una candidatura che abbia qualche possibilità dura pochi giorni, giusto il tempo di un’intervista alla Gazzetta e qualche uscita pubblica. Tavecchio ha già in tasca la quota minima di voti per la vittoria, ma Albertini ci prova perché la Figc «non può ridursi solo a potere e spartizione di poltrone». Il motto della discesa in campo è «rimettere il pallone al centro». Giovani, formazione, scuole e calcio di base. Un’insalata mista da rottamatore a metà tra sogno e utopia. La ricetta? Una serie A a 18 squadre, rose con un massimo di 25 giocatori e un minimo di dieci locali, cioè cresciuti nei vivai. L’ex centrocampista propone la formula delle “seconde squadre” ma anche maggiori canali di collegamento con serie B e Lega Pro per spingere la serie A a pescare in quei bacini. Sul piano della formazione prospetta allenatori specifici per i giovani, valorizzando pure il ruolo di Coverciano. Senza dimenticare un’inversione di marcia a livello culturale: «Bisogna avvicinare il calcio alla gente, gli allenamenti a porte aperte non devono essere una notizia e le squadre devono scendere sul territorio».
Poi c’è il tema della governance. Oggi Lega Dilettanti e Lega Pro aggregano il 51% dei voti e possono eleggere da sole il presidente della Federcalcio, ma poi non hanno la maggioranza in consiglio e così non possono governare. Ragion per cui Albertini propone due cda, uno per il professionismo e uno per il dilettantismo. Allo stesso tempo l’ex centrocampista vorrebbe sollecitare il governo italiano per una legge sul volontariato sportivo e per un intervento sullo ius soli «per far sì che chi nasce in Italia sia italiano anche per lo sport». Secondo Albertini bloccare gli extracomunitari «non serve» e il tetto è un «falso problema». La sua soluzione consiste nell’apertura delle frontiere all’interno dei flussi decisi dal governo «per essere più competitivi sul mercato globale».
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Chi lo conosce lo descrive «sveglio e preparato». È abituato a lavorare sodo, l’ex calciatore che conosce la macchina amministrativa dopo otto anni in Figc. Non si era lasciato intimorire nemmeno dall’indennità di presidente (“solo” 36.000 euro annui) che ha stoppato sul nascere la corsa di altri pretendenti dai curricula blasonati. Albertini riscuote apprezzamento, ma non scalda i cuori. Gode della stima di Sacchi e ha una sponda pure dalle parti di Michel Platini, ex calciatore ora capo della Uefa. Per l’ex bandiera milanista, oggi scaricato senza troppi patemi d’animo da via Turati, facevano il tifo molti addetti ai lavori che avrebbero voluto aprire le finestre del rinnovamento sul condominio del calcio. Ma hanno trovato il portone blindato. «Albertini? È un candidato di indubbio prestigio e di ottima presenza», scrive il direttore della Gazzetta dello Sport Andrea Monti che evoca «l’astuzia dei vecchi manovratori» a proposito del consenso bulgaro intorno a Tavecchio. «È lecito dubitare – attacca – che i padroni di ieri, ora califfi, abbiano imparato la lezione e diventino sinceri innovatori». Addirittura Simona Ventura sperava nel colpaccio: «Non succede, ma se succede..».
Non è facile che succeda, anzi è impossibile. Tavecchio ha razzolato le preferenze che contano e vede una vittoria certa. Uomo d’esperienza, grinta da giovanotto, know-how calcistico e contatti importanti. La sua Lega Dilettanti è un pozzo di consenso prezioso (34%) e l’amico Macalli gli porta in dote i voti della Lega Pro (17%). Già solo queste due componenti fanno il 51% e hanno convinto i più scettici che la strada di un altro candidato non sarebbe stata percorribile. Così per Tavecchio sono arrivati l’endorsement di Andrea Abodi a nome della serie B (5%) e, ciliegina sulla torta, il gruppo della Serie A grazie al lavoro diplomatico di Claudio Lotito, sempre più kingmaker. Il pallottoliere di Albertini gira a vuoto: nel conto ci sono assocalciatori (20%) e allenatori (10%). Gente che si è subito smarcata dall’ipotesi Tavecchio, considerandola soluzione d’apparato. Eppure la realpolitik dice che prima della rottamazione servono i voti. «Albertini? Ha un programma ambizioso ma deve trovare i numeri», ripetevano gli insider sin dalla sua discesa in campo. Bisognava convincere, sedurre e far cambiare idea ma non ce n’è stato il tempo. La corsa è segnata dall’intesa dei big che governano il pallone. Consociativismo, rendite di potere, relazioni di ferro. Stavolta cambiare verso pare un tantino azzardato.