Gela, l’ex petrolchimico da 200 milioni di rosso

Gela, l’ex petrolchimico da 200 milioni di rosso

Lo si sente chiamare ancora petrolchimico, ma lo stabilimento Eni di Gela ha cessato di esserlo da tempo. L’ultima produzione extra-petrolifera, quella di Polietilene, la plastica usata per le bottigliette, è terminata un paio di anni fa. Concimi, ammoniaca, acido solforico erano già stati smantellati da anni. Fino allo scorso marzo era rimasta solo l’attività core, quella della raffinazione di petrolio pesante. Poi, dopo un grave incendio, più nulla. Il resto è cronaca di questi giorni, il ritiro del piano di sviluppo dell’Eni da 700 milioni di euro, lo spettro della chiusura e del licenziamento di 1.200 lavoratori, a cui si aggiungono 1.800 dell’indotto. Oggi, 28 luglio, la manifestazione a Gela, con la presenza del segretario generale della Cgil, Susanna Camusso, e la partecipazione di 20mila persone e delle autorità degli enti locali (e delle istituzioni religiose) della zona. 

L’incendio

Dal 15 marzo a Gela non si produce più nulla. Un incendio ha danneggiato una parte sensibile della struttura, collegata a vari impianti, con il risultato che l’intero stabilimento si è dovuto fermare. Nel primo mese e mezzo la produzione è stata ferma a causa dell’intervento della magistratura, che ha disposto il fermo per raccogliere gli elementi utili all’inchiesta. Da maggio, però, racconta un esperto di manutenzione, dall’Eni tardava il via libera a riprendere le operazioni. A giugno la conferma: «Per quest’anno non siamo disponibili a riaprire gli impianti». 

Come dichiarato al Sole 24 Ore da Salvatore Sardo, chief downstream & industrial operations officer di Eni, «successivamente [all’incendio] ci siamo chiesti se aveva senso ripartire, viste le condizioni di mercato. Al momento la raffineria è ferma, non produce». 

Il piano industriale

La valutazione di Eni, e del suo nuovo ad Claudio Descalzi, ha significato bloccare i piani di sviluppo per la raffineria. Solo un anno fa l’Eni aveva firmato un piano industriale, con un investimento da 700 milioni di euro, per la sola Gela. Il piano prevedeva il passaggio dalla produzione di benzina a quella quasi esclusiva di gasolio, dato che i trend di mercato indicano un progressivo spostamento verso i motori diesel. Non sarebbe stato, nonostante i milioni promessi, un progetto indolore. Delle tre linee di produzione attuale, spiegano fonti aziendali, ne sarebbero state riconvertite e ottimizzate una e mezza, con l’aggiunta di qualche piccolo impianto. L’occupazione sarebbe quindi dovuta scendere da circa 1.100 a 670 operai. Altri punti del piano industriale, ha spiegato oggi La Stampa erano la realizzazione di un impianto per produrre pet-coke da utilizzare nella centrale elettrica della raffineria e un sistema per l’abbattimento dell’inquinamento di tutte le emissioni. 

Le perdite

A determinare la necessità di un cambio di produzione, prima, e di uno stop ora, per l’azienda di Stato sono principalmente i dati economici di Gela. Uno su tutti: il rosso da 200 milioni di euro all’anno relativo alla sola raffineria nissena. I sindacati parlano di 90 milioni, ma rimane il fatto che, come spiega una fonte interna alla raffineria, «i margini sono negativi: il costo di approvvigionamento e lavorazione era superiore al prezzo di vendita sul mercato». Salvarore Sardo ha detto che negli ultimi anni il margine di raffinazione, già in discesa negli ultimi anni, nei primi tre mesi dell’anno si è dimezzato, da circa 4 a circa 2 dollari al barile. Gli altri dati negativi riguardano i consumi: dal 2006 al 2014, ha spiegato ancora il dirigente di Eni, i consumi petroliferi sono calati del 15% in Europa e del 30% in Italia. Questo ha significato, ha aggiunto al Sole 24 Ore, «una sovraccapacità di raffinazione molto rilevante, stimata in 120 milioni di tonnellate annue, pari al 140% dell’intera capacità di raffinazione italiana». In Italia tale sovraccapacità è «stimata in circa 40 milioni di tonnellate, ossia l’equivalente di 6/7 raffinerie di Gela». 

Le chiusure effettuate e in vista

Negli ultimi 5 anni, ha ricordato Sardo, «sono state chiuse 17 raffinerie petrolifere, di cui quattro in Italia». Quella di Porto Marghera è stato riconvertita in “raffineria verde”. L’azienda di Stato non sembra volersi fermare. Il nuovo piano strategico illustrato da Descalzi ai sindacati l’8 luglio, prevede il mantenimento della raffineria di Sannazzaro (Pavia) e di Milazzo (Messina), di cui possiede la metà, e il ridimensionamento, oltre che di Gela, anche di Taranto, Porto Marghera e il petrolchimico di Priolo. 

Il nuovo piano

Dopo l‘annuncio della marcia indietro di Eni sul piano di investimento da 700 milioni, e le proteste che ne sono seguite, Descalzi e Sardo hanno parlato di un nuovo piano di investimenti, da 2,1 miliardi di euro. Così ha dichiarato Salvatore Sardo al Sole 24 Ore

Non si parla di chiusura ma di riconversione; non licenzieremo nessuno dei nostri 970 dipendenti. Dirò di più: siamo disponibili a incrementare gli investimenti dai 700 milioni previsti a oltre due miliardi, in un progetto ampio che potrebbe coinvolgere altri settori, ad esempio l’esplorazione di idrocarburi, la raffinazione verde, e anche un centro mondiale di formazione manageriale sulle tematiche di salute, sicurezza e ambiente. Eni ha già affrontato situazioni simili a quella di Gela, cioè impianti industriali in perdita strutturale.

Rimane, però, la diffidenza da parte dei sindacati. Oggi, ha riportato il Fatto Quotidiano, queste ipotesi sono state prontamente bocciate da sindacati, settori tecnici e forze politiche, perché ritenute “insufficienti a garantire gli attuali livelli occupazionali”. Uno dei dubbi riguarda proprio il fatto che i 2,1 miliardi comprenderebbero anche gli altri impianti in Sicilia e le trivellazioni off shore, molto costose e che per questo potrebbero assorbire buona parte del budget indicato. 

Le proteste

Dalla fine della prima settimana di luglio gli operai di Gela hanno bloccato l’accesso agli impianti. Nonostante la produzione fosse ferma da marzo, i turnisti erano rimasti a controllare gli impianti e i manutentori avevano continuato le loro operazioni. Dai blocchi sono rimasti esclusi, attraverso precettazioni, solo alcuni reparti (relativi al trattamento biologico), mantenuti in marcia per ragioni di sicurezza. 

Dopo la marcia di oggi, domani, 29 luglio, è previsto lo sciopero nazionale, che riguarderà 30mila dipendenti e prevederà una manifestazione a Roma. Mercoledì 30 ci sarà un incontro con i sindacati al ministero dello Sviluppo economico. Le rappresentanze dei lavoratori chiedono la creazione di un tavolo nazionale sul settore. 

La storia di Gela

L’impianto di Gela fu voluto da Enrico Mattei negli anni Sessanta. Aprì nel 1965 per sfruttare il petrolio greggio del territorio di Gela e dintorni. L’impianto si specializzò nella raffinazione di petrolio di bassa qualità, come appunto quello presente sulle coste siciliane. Nel tempo questa capacità, all’inizio del tutto peculiare, permise a Gela di trattare il petrolio di scarto dei Paesi arabi, come l’Iraq, e dell’Iran. In seguito tali Paesi svilupparono strutture in grado di raffinare in loco tali prodotti. 

Alla fine degli anni Sessanta il petrolchimico aveva più di 7.500 dipendenti (altre fonti locali parlano di più di 10mila). Fu realizzato, per i dirigenti, impiegati e altri lavoratori provenienti da fuori, il quartiere Macchitella, isola razionalista (in un paese caratterizzato da abitazioni molto spesso senza facciata completata) con palazzine alternate a campi da gioco, giardini, passaggi pedonali e fontanili. 

Ma la storia di Gela, come quella di Taranto, è stata caratterizzata anche dal pesantissimo impanto sull’ambiente e sulla salute. L’ultima delle decine di inchieste, realizzata da l’Espresso, ha messo in luce l’incidenza elevatissima di tumori, malattie e malformazioni tra chi vive o lavora vicino alll’impianto. 

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