Avere un lavoro non basta, serve equilibrio con la vita

Avere un lavoro non basta, serve equilibrio con la vita

In un periodo in cui la priorità è per forza di cose, causa crisi e spending review, innalzare l’occupazione – indipendentemente dal tipo e dalla durata del contratto – le proposte o le riflessioni sulla qualità dell’occupazione e il benessere dei lavoratori sembrano suscitare un generale imbarazzo. 

Eppure uno dei cambiamenti più importanti degli ultimi tempi è la ridefinizione dei confini tra tempi e spazi di lavoro e vita privata, aspetti di non sempre facile definizione e misurazione. In una fase in cui vi è sempre meno stabilità lavorativa ed è sempre più richiesta maggiore disponibilità al lavoratore, si assiste sia alla dilatazione sia all’improvvisa compressione del tempo produttivo e della vita privata. La crisi ha determinato una “diminuzione del lavoro” in termini occupazionali, ma anche in fatto di ore lavorate. In Europa è aumentato il part-time, sostanzialmente a causa della contrazione dell’attività economica. In Italia, ad esempio, la quota di part-time involontario è passata dal già cospicuo 57,4% del 2012 al 61,6% nel 2013. Ed è aumentata la precarietà, in assenza di altre possibilità di impiego, i lavoratori hanno accettato lavori atipici, temporanei o ad orario ridotto [1]. Non per questo però il lavoro, con i suoi differenti livelli di intensità e qualità, è meno “pervasivo” e anzi invade e modifica sempre più la quotidianità, condiziona progetti e percorsi di vita.

La sfera lavorativa e quella della vita privata vivono nuovi rapporti e andrebbero considerate congiuntamente e analizzate non tanto con l’ormai obsoleto concetto di conciliazione quanto con quello di work life balance, espressione con cui ci si riferisce all’equilibrio fra il lavoro retribuito e la vita privata delle persone. Arrivare a questo equilibrio interessa e coinvolge più ambiti: politico, sociale, organizzativo-aziendale, familiare. Si tratta di un concetto neutro, che riguarda cioè uomini e donne, giovani e adulti, e si è diffuso soprattutto grazie alle politiche comunitarie, ampliando e arricchendo la definizione di conciliazione [2]. Sorprende quindi, e in parte anche amareggia, che l’Europa abbia cancellato per il 2014 l’anno della conciliazione [3]. Il nuovo governo italiano, invece, sembra aver mostrato interesse per la questione inserendo all’interno del Jobs Act una delega al governo in materia di maternità e conciliazione.

Andando a guardare la misura, una prima osservazione positiva è per l’approccio. Si parla infatti non solo di maternità ma di sostegno alla genitorialità, e quindi di supporto a madri e padri. Ma la novità sembra solo lessicale, poiché i provvedimenti risultano rivolti quasi solo alla platea femminile.

Uno dei provvedimenti propone di estendere l’indennità di maternità a tutte le categorie di lavoratrici e questa è indubbiamente una novità. Ma bisognerebbe intervenire anche sul simbolico congedo di paternità italiano, che ad oggi prevede un solo giorno a disposizione dei padri in corrispondenza della nascita del figlio (che possono diventare tre giorni attingendo però a due giorni di astensione obbligatoria della madre). 

Inoltre l’intenzione di estendere a tutte le lavoratrici l’indennità di maternità in realtà mal si concilia con i cambiamenti introdotti dal governo sui contratti a termine, modifiche che rischiano aumentare la probabilità che durante la gravidanza ci si trovi senza un lavoro. Al datore di lavoro non sarà più necessario neanche far firmare illecitamente le dimissioni in bianco[4]: basterà, legittimamente, non rinnovare il contratto[5].

Infine, non avendo la possibilità di dimostrare di avere un rapporto di lavoro quantomeno annuale, sarà meno probabile poter accedere ai servizi pubblici per la prima infanzia. Servizi nei confronti dei quali il governo si è impegnato ad investire favorendo l’integrazione dell’offerta fra aziende e sistema pubblico. Quest’ultima misura, insieme a quella che prevede l’incentivazione di accordi collettivi per favorire la flessibilità dell’orario lavorativo e dell’impiego di premi di produttività, potrebbero rappresentare la vera novità del Jobs Act in ottica di work life balance e introdurre dei cambiamenti interessanti, ma solo se si terrà conto, nella loro implementazione, delle caratteristiche del tessuto produttivo italiano [6] e se si coinvolgeranno anche i cosiddetti lavoratori atipici. Un’ultima riflessione riguarda l’abolizione della detrazione per il coniuge a carico e l’introduzione della tax credit quale incentivo al lavoro femminile. Questa misura, di natura neutra, deve fare con i conti il problema culturale della cura familiare, che in Italia grava per lo più sulle donne; se l’occupazione femminile non sarà associata a una redistribuzione dei carichi di cura, le donne italiane continueranno a sostenere, oltre al “doppio ruolo”, anche un doppio onere, che probabilmente non sarà alleggerito né compensato con la nuova tassazione (la somma di denaro che si risparmierà in termini di tasse, difficilmente coprirà le spese annuali per acquistare servizi per l’infanzia o per la cura degli anziani). Ben vengano quindi le misure fiscali che incoraggiano il lavoro retribuito femminile fuori casa in attesa di proposte di policy che favoriscano il lavoro non retribuito maschile in casa, primo fra tutti un congedo di paternità obbligatorio di almeno 15 giorni come suggerito dal parlamento europeo nel 2010. 

Avere un lavoro può non bastare a raggiungere opportuni livelli di benessere soprattutto se il carico e la distribuzione degli impegni lavorativi impediscono di trovare un equilibrio fra lavoro e tempi di vita familiare e sociale. Il rischio è che a causa della crisi e del calo dell’occupazione si continui a considerare l’equilibrio tra vita privata e lavoro una questione di sola pertinenza femminile, e di considerarla di secondaria importanza: l’unico obiettivo è avere un lavoro, non importa con che tipo di contratto, se ben retribuito, se coerente con il titolo di studio e le competenze possedute, se in grado di lasciare spazio alla vita privata.

Le ultime analisi Isfol all’interno della terza Indagine sulla qualità del lavoro hanno evidenziato, in termini di sostenibilità del lavoro, che si stanno producendo importanti cambiamenti sia rispetto alla platea dei soggetti interessati sia per la definizione dei confini spazio temporali. In un contesto in cui gli uomini manifestano maggior interesse nei confronti della vita privata e familiare e soprattutto in un mercato del lavoro che propone nuove modalità di accesso e permanenza (flessibili), soprattutto per i giovani, le politiche sociali non sono state sinora in grado di adeguarsi ai cambiamenti in corso. Le politiche di work life balance, in Italia, continuano a proporre un’obsoleta divisione di ruoli, bread winner maschile – responsabile di cura femminile, e non consentono spesso a tutti i lavoratori, ad esempio gli autonomi o gli atipici, l’accesso agli strumenti tradizionali di garanzia e sostegno alla conciliazione come i congedi, i permessi per studio o formazione, i servizi e/o i benefits aziendali.

Le politiche diwork life balance andrebbero quindi riproposte in modo neutro, come avviene in molti Paesi nord-europei, e dovrebbero iniziare a fare i conti con le nuove forme (atipiche) di accesso al mercato del lavoro trasformandosi da questione di “genere” a materia legata all’“individuo”. I dati dell’ultima European Working Conditions Survey condotta da Eurofound nel 2010 per esempio hanno evidenziato come in generale nei paesi europei le difficoltà nel conciliare il lavoro con la vita privata varino non tanto in base al genere quanto rispetto al ruolo ricoperto all’interno della famiglia.

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