La comparsa di mafia è più o meno coeva a quella di camorra, ma priva di precedenti anteriori al periodo postunitario: il derivato mafioso figura nel testo teatrale di Giuseppe Rizzotto I mafiusi di la Vicaria di Palermu (1863) e la sua registrazione ufficiale nella lessicografia si deve al Nuovo vocabolario siciliano-italiano di Antonino Traina (Palermo, 1868-1873) coi significati di ‘braveria, baldanza, tracotanza, pottata, spocchia’ e infine ‘nome collettivo di tutti i mafiosi’. La presenza di una –f– in posizione interna, estranea alla tradizione latina, e la sua peculiarità di voce siciliana, hanno indirizzato la ricerca delle origini verso l’arabo e in questa direzione, la proposta che riscuote più consensi è quella dell’adattamento del prestito maḥyāṣ ‘smargiasso’, col derivato maḥyaṣa ‘smargiassata millanteria’, nella riformulazione di Salvatore Trovato (Atti del XXI Congresso Internazionale di Linguistica e Filologia Romanza, Vol. III, Tübingen, Niemeyer, 1998, pp. 919-925).
mafia viene dall’arabo mo’afiah:
‘arroganza, tracotanza, prevaricazione’
Meno fortunata, ma non per questo meno degna di considerazione, è la proposta avanzata a suo tempo da G.M. Da Aleppo e G.M. Calvaruso (Le fonti arabiche del dialetto siciliano. Vocabolario etimologico, Roma, Loescher, 1910) e rilanciata con qualche correzione da M. Salem Elsheikh (Gli interscambi culturali e socio-economici fra l’Africa Settentrionale e l’Europa mediterranea, Napoli, 1986, pp. 943-951), secondo la quale mafia sarebbe la resa dell’arabismo mo’afiah ‘arroganza, tracotanza, prevaricazione’. Se dovessimo propendere per l’arabismo, questa seconda ipotesi ci sembrerebbe preferibile, perché comporta un adattamento minimo in quanto il segmento iniziale mo’a– si riduce facilmente a ma–. Ma le difficoltà dell’arabismo sono altre, prima di tutte la datazione: è difficile accettare una trasmissione sotterranea di almeno otto secoli, se si attribuisce il prestito al periodo della dominazione araba della Sicilia, e d’altra parte, se si sostiene la sua adozione recente, si ha l’obbligo di indicarne e motivarne il tramite attraverso i documenti.
Bisogna poi tener conto di due fatti di ordine semantico: il primo è che gli scrittori siciliani del secondo Ottocento sono concordi nel sostenere che in Sicilia il significato primitivo di mafia era ‘eleganza, braveria, eccellenza’; il secondo è che fuori di Sicilia la voce è diffusa nei dialetti centro-meridionali col significato di ‘spocchia’ e prevalentemente nella variante maffia con doppia –f-. Una ricerca più accurata fa emergere il bergamasco mafia “donna di età mezzana”, l’elbano maffiona ‘(donna) colla faccia piena e tonda’ e la locuzione far (la) maffia ‘sfoggiare lusso’, propria del gergo militare. Al maschile troviamo il torinese mafi, mafiu ‘tanghero’ e il milanese brüt mafee ‘uomo brutto’, che Angelico Prati (Voci di gerganti, vagabondi e malviventi, Supplem. II a L’Italia Dialettale, 1940, pp. 125-128) riconduce senza difficoltà al nome proprio Maffeo, variante di Matteo, appartenente alla serie dei nomi biblici in –èo, che hanno acquisito un significato dispregiativo, descritti a suo tempo da Bruno Migliorini (Dal nome proprio al nome comune, Genève, Olschki, 1927, pp. 274-275). La stessa origine il Prati attribuisce di conseguenza alle voci femminili citate sopra, ma questa sua conclusione ha incontrato scarsa approvazione.
Vale invece la pena d’insistere sull’origine del nome proprio Maffeo per almeno tre buone ragioni: fornisce una base lessicale accertata maf(f)-, altrimenti estranea al lessico italiano, rende conto dell’oscillazione –f-/-ff– tipica dei nomi propri che derivano da Matthaeus, permette di vedere nella Sicilia un centro di espansione recenziore della voce nella sua accezione più nota, ma non necessariamente il luogo della sua formazione. Stando ai dati forniti dai dialetti italiani, maf(f)ia è in partenza una vox media che significa ‘braveria, baldanza’, suscettibile di assumere accezioni positive o negative secondo l’etica e il costume dei parlanti: così in Sicilia, dove l’esibizione delle proprie ricchezze e del proprio stato sociale elevato è considerato un comportamento legittimo e naturale, la voce ha preso il significato di ‘eleganza, eccellenza’, mentre in Toscana, dove è vista come un’ostentazione inopportuna da guardare persino con sospetto, ha preso quello di ‘spocchia, boria’.
Il nodo mancante è quello che lega questo comportamento al nome di Maffeo e il personaggio di riferimento non può che essere l’apostolo Matteo. A guardar bene nel racconto della sua conversione secondo il Vangelo di Luca ci sono tutti gli elementi utili, considerando non tanto il suo significato profondo quanto piuttosto le reazioni prodotte nell’immaginazione e nei sentimenti dell’uditorio. A differenza degli altri apostoli, semplici pescatori che avevano seguito Gesù senza cerimonie, Matteo, da ricco pubblicano, solennizza l’avvenimento con un atto di magnificenza: “Poi Levi gli preparò un grande banchetto nella sua casa. C’era una folla di pubblicani e d’altra gente seduta con loro a tavola” (Luca 5, 29). Per gli ascoltatori delle letture domenicali questi elementi erano più che sufficienti a caratterizzare il tipo che trasforma un evento personale in un’esibizione di lusso e di superiorità, che fa la maffia.
Il significato può essere legato al nome Maffeo e all’apostolo Matteo, l’unico a esibire lusso e superiorità
Del resto il Vangelo di Luca è il più ricco di particolari narrativi, recepiti e rielaborati sia dalla tradizione dotta che da quella popolare, come le figure del ricco epulone, prototipo del gaudente dissoluto, e del povero Lazzaro, prototipo dello straccione miserabile, che ha dato il napoletano (e italiano) lazzarone ‘pezzente, vagabondo, canaglia’. Un riflesso dell’immagine popolare dell’apostolo Matteo, conseguenza della sua magnificenza, si coglie con evidenza in un detto che mi è stato riferito da un informatore di Torremaggiore (Foggia): quando qualcuno a tavola si abbuffa oltre misura, si usa rimproverarlo dicendo eh, Sande Mattèe!
Alberto Nocentini