Nei panni di un amministratore dell’area milanese sarei assillato da alcune preoccupazioni. La febbre delle periferie senza lavoro, sempre più scollate dalla città, che cresce. Il terziario avanzato che fugge inesorabilmente dal contesto urbano. E le ex-aree industriali che fanno muffa, con ragnatele sempre più difficili da togliere. Prenderei il calendario cercando qualche segno di vitalità economica, scorrendo l’indice fino a “Settimana della moda”, “Fuori Salone”, e scommetterei anche su Expo2015 incrociando le dita. Ma non basterebbe. Queste attività – benché preziose – hanno tutte un carattere fast, ovvero consumano e nello stesso tempo arricchiscono la città in modo passeggero, temporaneo e/o stagionale, e per giunta sono tutte legate all’economia dell’esperienza. Creano un effetto Luna park. Rendono Milano un eventificio che ha un impatto sulla città “economica” sicuro ma troppo immediato, mentre stressa e mette in una tensione negativa la città materiale, per via delle sollecitazioni eccezionali a cui sottopone i trasporti, il traffico, l’ordine pubblico ed il commercio ed il lavoro, che rimangono vittime del turnover sia dei consumi-mordi-e-fuggi che delle temperie di investitori di settore pronti a spostare eventi e pubblicità da Milano a Parigi da un giorno all’altro.
Dunque le domande mi assillerebbero ancora, perché questa “moda-spettacolo” che riempie e svuota la Milano delle sfilate come una fisarmonica, non mi darebbe risposte sostenibili nel lungo periodo. Mentre la città avrebbe quindi bisogno di una moda più slow, con un effetto stabile e più compagna di uno sviluppo urbano continuo e progressivo, non repentino e svuotante.
Oggi, proprio negli stessi giorni in cui parliamo di reshoring o backshoring, la moda può invece rispondere efficacemente alle domande della città. Può riportare il lavoro in centro, così come rammendare con pazienza le periferie e riempire le aree industriali senza esborsi di denaro pubblico. Fortuna vuole, infatti, che il “dove si fanno le cose” sia oggi uno dei fattori maggiormente capaci di innestare valore nei prodotti. Lo si vede nelle battaglie per il “Made in” nell’agroalimentare, nel Back to Italy del tessile e della moda, e nella crescente curiosità ed esigenza dei consumatori riguardo al paese di origine delle merci ed alle etichettature che le accompagnano.
Consapevole che le catene globali del valore siano ancora molto lunghe (il rapporto tra produzione in Italia e all’estero è 20/80, ed andrebbe ribaltato), fossi un amministratore affacciato sull’Area Metropolitana cercherei di riportare in città alcune parti, anche piccole, della catena produttiva; ci riempirei quelle aree svuotate da un’economia che è cambiata velocemente, e cercherei di renderle, queste sì, l’oggetto del nuovo spettacolo urbano: il lavoro.
L’esempio di come si possa aiutare l’economia locale a ripartire, ed a creare esternalità positive per tutto il territorio intorno, si ha nei tanti spazi di co-working che sorgono a Milano, come il recente Co+Fabb a Sesto San Giovanni, o dell’esperienza del Borgo di Solomeo rivitalizzato da Cucinelli, o dell’insediamento a Olbia della produzione di tonno della Generale Conserve di Vito Gulli. Oggi appare quindi fondamentale offrire ai big, come ai medi imprenditori di settore, luoghi con tutte le facility in grado di velocizzare le dinamiche di cambiamento di una manifattura che si evolve velocemente e vorrebbe tornare a casa, di una nuova artigianalità, intrisa di tecnologia, che può riportare il valore immateriale della moda di nuovo su un territorio a noi vicino.
*Sintesi dell’intervento di Antonio Belloni, consulente sul Made in Italy, al convegno “Milano ascolta la moda”.
Guarda il programma e la diretta video dell’evento, a partire dalle 21 del 20 novembre: