L’Italia, nel settore della ristorazione, è un Paese di bellissime history family (i Cerea, gli Alajmo, i Santini…), di coppie felici (i Pinchiorri…) e di one man show, sempre più al soldo di hotel, fondi finanziari, griffe di moda o case vinicole e sempre meno indipendenti. Cracco, Bottura e Oldani sono tra gli ultimi grandi chef-patron. Quelle che sono rarissime sono le case history che partono dal basso e arrivano in alto.
Una di queste – l’immagine che abbiamo scelto non è casuale – è rappresentata da Ceresio 7, che fa da tetto all’ex-palazzo Enel di Milano, ristrutturato in modo esemplare per diventare la sede del gruppo Dsquared2. Per capirci siamo a dieci minuti di auto da Porta Nuova, il quartiere più “figo” della città. Il locale è definito “Pools & Restaurant” per la caratteristica per ora unica a Milano di avere – oltre alla zona coperta – un’ampia terrazza con una piccola piscina per lato, lettini e tavolini bassi: relax durante il giorno e cornice ideale per l’aperitivo o il dopo cena, sfruttando una vista totale su Milano e la nuova skyline. Se la terrazza è un must cittadino, l’interno tiene il passo con arredi customizzati, ispirati agli anni ’50 e ’60, composto da pezzi unici e ottime repliche di design.
Un’immagine della piscina del locale tratta dal sito web di Ceresio 7
Perché case history? Per l’idea e la riuscita di un progetto, creato da un poker di professionisti che si è incontrato al Bulgari Hotel milanese, contribuendone al successo. I quattro sono il romano Edoardo Grassi, il casertano Luca Pardini, il varesino Marco Civitelli e il brianzolo Elio Sironi: insieme hanno il 60% della società che gestisce il locale, il resto è dei due gemelli Caten, quelli di Dsquared2. Storia divertente: Grassi arriva nel 2004 – dopo importanti esperienze in hotel – come nuovo direttore food & beverage al Bulgari e trova Pardini, barman di fama, che diventerà il suo vice. Civitelli, dottore in economia del turismo allo Iulm, li raggiunge nel 2006. In cucina c’è già Sironi, cuoco raffinato ed esperto come pochi in Italia a “seguire” i gusti di un pubblico trendy. Risultato: fully booked ininterrotto dal giorno dell’apertura (20 settembre 2013) sia al ristorante sia all’american bar. In un periodo così complicato e considerando che non è un posto low cost, il fenomeno fa riflettere e invita a molte domande. Rispondono insieme, naturalmente.
Da dove partiamo per spiegare il successo?
La location: atipica più che particolare. È uno dei pochissimi ristoranti con terrazza a Milano, mentre a Roma e Napoli non sono mai mancati. A quel punto, si è pensato a un doppio binario: trovare la filosofia giusta per servirsene e fare i conti giusti.
Molti sono sorpresi dal fatto che voi siate soci di un gruppo e non dipendenti come molti bravi colleghi.
È una delle armi del successo. Anche la quota è stata studiata: il 40% dei Caten è lo spazio, la creatività e l’allure che hanno in dote. Il nostro 60% è l’operatività e una buona esperienza del settore. Ognuno ha fatto e sta facendo bene il suo lavoro. Certo, la nostra scelta ha comportato metterci non solo la faccia ma un rischio concreto: più o meno, noi quattro abbiamo investito un milione e mezzo di euro. Non poco.
Un rischio calcolato, visto il risultato.
Abbiamo sbagliato, fortunatamente, il business plan. Eravamo stati “conservativi” come è giusto farlo per un locale nuovo e “diverso” oltre che per la valutazione sulla concorrenza più vicina. Lo abbiamo superato di circa il 20 per cento. Da maggio a ottobre, in media abbiamo contato 180 coperti al ristorante e sino a 300 presenze al bar: diciamo che in una giornata normale passano di qui tra le 400 e le 500 persone.
Il costo del personale in locali come questi è generalmente alto. Confermate?
Tra sala, cucina e altri ruoli girano una cinquantina di addetti. Se vuoi offrire servizi all’altezza, devi investire sul personale, numericamente, per coprire tutte le esigenze: c’è bisogno di parecchia gente e il vero impegno è farne un’orchestra che funziona in modo perfetto, su un orario lungo e una tipologia di locale complicata.
“In tutto il mondo ci vogliono una bella location, un valido prodotto e un impeccabile servizio. In Italia, occorre anche l’oste”
La strada per il successo è uguale da noi come nel resto del mondo?
Sì e no. Le basi della ricetta sono eterne, dall’Alaska al Sudafrica: ci vogliono una bella location, un valido prodotto e un impeccabile servizio. In Italia, occorre l’oste, nel senso più ampio della parola, anche per i posti di lusso. Diciamo una persona che si conosce: il barman o il concierge nell’hotel, il patron o il maitre in un ristorante. È un concetto di “casa” che ci portiamo dietro e che tutto sommato conquista anche gli stranieri, abituati a una professionalità più fredda.
Detto che siamo d’accordo, non si capisce allora come mai l’Italia abbia perso il suo storico primato dell’ospitalità.
Senza fare discorsi alti – a sfondo politico-economico – è evidente che sia un insieme di cause: le vecchie generazioni che non hanno avuto modo o voglia di insegnare ai giovani, le scuole che da un lato hanno alzato il livello culturale e manageriale degli allievi ma restano lacunose sulla parte concreta e anche la fuga verso l’estero di tanti professionisti, soprattutto dal 2000 in poi. C’è realmente un “buco” di dieci-quindici anni di talenti, simile a quello del calcio. Ma siamo ottimisti, recuperemo.
“Nell’ospitalità c’è realmente un “buco” di dieci-quindici anni di talenti, simile a quello del calcio”
Ci sono ancora tanti posti liberi nei locali italiani?
Sicuramente. Il problema è far capire che non si tratta di lavori normali: ci vogliono la conoscenza tecnica – come per tante altre professioni – ma una passione superiore. Gente che guardando il calendario sa già che “forse” avrà del tempo libero, magari in periodi e orari totalmente diversi da amici e parenti. Detto questo, gli italiani sono nati per gestire e dirigere locali, soprattutto di livello: non a caso, trovano facilmente ottimi posti nel mondo. Abbiamo un mood diverso: un maitre tedesco, bravissimo sin che si vuole, non reggerà mai il confronto con un italiano, alla stessa altezza.
Questo è un locale simbolo del “lusso informale”, così di moda. Corretto?
Forse è una definizione che per tempo e filosofia, troviamo più adatta al Bulgari dove abbiamo lavorato tanti anni. Per Ceresio 7 è più adatto parlare di “lusso del benessere”, ossia la ricerca di un momento dove star bene a 360 gradi, staccando dalla normalità, e in modo conviviale. Se ne avverte il bisogno fra stress perenne e problemi notevoli. Anche per questo abbiamo puntato su una cucina lineare, efficace e rapida. Bisogna soddisfare oltre cento persone in un’ora e mezza, quindi non ci saranno mai i piatti con le spume o le righe. Non perché non siano richiesti, da una parte del pubblico, o la cucina non ne sia capace. Ma per il format del ristorante.
“È divertente vedere il comportamento dei clienti milanesi che si sentono a New York”
La clientela come si è evoluta?
Premessa: in posti come il nostro non può che essere trasversale: “quelli” della moda e i top clients, habituè e neofiti, persone non particolarmente interessate al cibo ma anche gourmet che cercano l’esperienza. Quindi vivono la serata in modo in partenza già diverso, non è come andare alla Francescana dove tutti parlano la stessa lingua. Ecco perché il trait d’union non può che essere il mix tra semplicità, contemporaneità e riconoscibilità delle materie prime. Così, la maggioranza è contenta.
Altri pensieri?
C’è più attenzione a quanto si spende, ovviamente. Anche se talvolta senza senso: si è creata un’ossessione per il rapporto qualità-prezzo, che finisce per far perdere di vista gli elementi che lo determinano, primi fra tutti location e servizio.
Meglio i compatrioti o gli stranieri?
È divertente vedere il comportamento dei clienti milanesi che si sentono a New York e spesso sono orgogliosi di portare gli ospiti qui per mostrare il locale e la skyline. Mentre gli stranieri si sentono a casa loro ma apprezzano moltissimo l’allure, il tocco in più che manca nei loro ristoranti. Bellissimi, perfetti nel servizio, “meccanizzati” in ogni aspetto ma spesso freddini. Sei un numero e non “il” cliente, per il motivo che fanno un mare di coperti e hanno un approccio socialmente diverso.
“Londra e Dubai siano nei nostri obiettivi e ci stiamo lavorando in modo serio”
E per questo plus che state pensando di esportare il brand?
Non c’è dubbio che Londra e Dubai siano nei nostri obiettivi e ci stiamo lavorando in modo serio. C’è la voglia di nuove frontiere e la possibilità di un ritorno economico maggiore che da noi. Ci uniamo a quanto dicono tanti imprenditori: in Italia, fare impresa – seguendo ogni regola e legge come è nostra abitudine – è molto difficile e poco remunerativo rispetto all’impegno e al tempo richiesto. Non va bene.
Ultima: perché storie come la vostra – parliamo sempre di livelli importanti – sono decisamente rare nel panorama italiano. Mancano le idee? Le persone? I posti? O è sempre una questione di quattrini?
Manca il coraggio, la voglia di mettersi in gioco. Ci sono tante persone come noi, nel settore, e le conosciamo. Di idee buone ne sentiamo in giro. Quanto ai posti, per imprese del genere, onestamente la scelta è tra Milano e Roma: la prima ha vocazione alla novità e un pubblico interessante sia residente sia di passaggio, la seconda ha una potenzialità straordinaria ma è ancora “adolescente” per molti aspetti. I soldi? Ecco, bisogna aiutare i talenti a realizzare i progetti validi, come è successo a noi. In questo senso, il coraggio manca sia dalla parte degli operatori – che spesso preferiscono una vita più sicura – sia dalla parte di chi dovrebbe mettere i soldi. Se vogliamo, è sempre il difetto storico: la difficoltà a fare gruppo, a lavorare nella stessa direzione. Quando si trova la quadratura del cerchio, ecco che gli italiani non hanno rivali.
Il management in cucina: tutti gli articoli di Maurizio Bertera