Il 15 dicembre, Matteo Renzi ha annunciato la candidatura dell’Italia per le Olimpiadi estive del 2024. Se ne era parlato spesso, negli ultimi anni: la candidatura di Roma per il 2020 non era stata presentata all’ultimo momento, nel febbraio 2012, per una decisione dell’allora premier Mario Monti, che riteneva l’avventura troppo costosa.
Alla fine la città scelta per quella edizione è stata Tokyo: il giorno dopo l’annuncio, a settembre del 2013, l’Italia aveva cambiato presidente del Consiglio – e anche idea sulla possibilità di ospitare le Olimpiadi. Parlando al Forum Ambrosetti l’allora premier Enrico Letta, infatti, aveva detto: «credo che il nostro Paese debba pensare seriamente a candidarsi per le Olimpiadi del 2024». In settimana l’annuncio di Renzi, con un discutibile tempismo rispetto all’inchiesta su Mafia Capitale.
Per prima cosa, chiariamo i tempi: l’Italia è il primo paese a presentare una candidatura – con una dichiarazione ufficiale, perché per la procedura del Comitato olimpico internazionale c’è ancora da aspettare. Le candidature si potranno presentare, in concreto, solo dal 15 settembre 2015, con termine ultimo l’8 gennaio 2016. La decisione finale verrà presa solo nell’estate del 2017.
1. Le due domande
Renzi è stato particolarmente cauto nell’occasione in cui ha annunciato la candidatura e non ha parlato molto dei benefici che la scelta porterebbe all’Italia. Ma come è avvenuto in tutti i paesi in cui negli ultimi decenni hanno provato a candidarsi – un processo che dura anni e da solo costa decine e decine di milioni di euro – prima o poi i sostenitori della scelta tirano fuori l’argomento economico: ospitare le Olimpiadi conviene. Biglietti venduti, turismo, infrastrutture capaci di aiutare la futura crescita. D’altra parte, nessuno nega che prima di avere ritorni economici da un grande evento sia necessario spendere. E dunque bisogna chiedersi: ospitare le Olimpiadi è davvero un guadagno?
Le domande da farsi, in realtà, sono due. La prima domanda è se l’evento in sé sia in grado di generare profitti per il comitato organizzatore che ne paga la spesa, attraverso il ritorno in sponsorizzazioni, in diritti televisivi o in biglietti venduti (da Seul ’88 a Pechino ’08 sono stati venduti in media 5,1 milioni di biglietti, che hanno toccato gli 8,8 milioni con Londra 2012). La seconda domanda è se gli investimenti possano generare, negli anni successivi, un qualche tipo di ritorno economico, ad esempio grazie al miglioramento dei trasporti o all’aumento del turismo e degli investimenti.
La risposta alla prima domanda, almeno a guardare la storia recente, è quasi certamente no. La risposta alla seconda domanda è che nessuno lo sa.
2. Storie di successo, storie di disastri
L’organizzazione delle Olimpiadi è stata spesso legata a messaggi politici o propagandistici. È quindi molto facile concludere che i Giochi organizzati in regimi non democratici (su tutte Berlino 1936 e Mosca 1980) non avessero tra i primi obiettivi la sostenibilità economica. Nei paesi democratici, la storia insegna che organizzare un’Olimpiade si è rivelato diverse volte un disastro economico.
Un caso di scuola furono le Olimpiadi di Toronto, nel 1976: nonostante l’allora sindaco Jean Drapeau avesse detto che «i giochi olimpici non possono perdere soldi più di quanto un uomo possa avere un bambino», i costi – inizialmente stimati in 250 milioni di dollari – lievitarono fino a ben oltre i due miliardi, e nel maggio del 1976 il governo locale introdusse una tassa speciale sui tabacchi per ripagare i debiti, in particolare per la costruzione dello stadio olimpico. La tassa era ancora presente trent’anni dopo la fine dei Giochi e i debiti vennero pagati integralmente solo alla fine del 2006.
Ma ci sono anche storie di successo. Le Olimpiadi più economiche della storia sono state probabilmente quelle di Londra del 1948, in un Regno Unito ancora piegato dalla guerra. Le spese del comitato organizzatore ammontarono a un totale di 732.268 sterline, più o meno 25 milioni di euro attuali. Non vennero costruiti nuovi impianti e alcuni atleti furono ospitati in baracche di legno a Richmond Park. Il comitato organizzatore riportò un profitto per circa un milione di euro attuali.
A parte quel caso eccezionale, la manifestazione più citata come un successo economico è quella di Los Angeles 1984, che furono in effetti un guadagno netto. Il caso di Los Angeles, però, è più unico che raro, e difficilmente ripetibile. Gran parte del merito va attribuito al presidente e general manager del comitato organizzatore, Peter Ueberroth. Era un uomo d’affari che si era fatto da solo, proprietario e fondatore della First Travel Corporation, una società di viaggi. L’azienda era cresciuta fino a diventare la seconda dopo American Express (Ueberroth l’avrebbe venduta nove mesi dopo essere stato scelto alla guida del comitato).
Quando Ueberroth fu scelto per organizzare le Olimpiadi, nel 1979, si trovò davanti un compito ingrato: farcela senza alcun sostegno pubblico.
Uno degli aspetti particolari di Los Angeles ’84 è infatti che, per quanto oggi possa suonare sorprendente, nessuno voleva ospitare quelle Olimpiadi. I Giochi di Mosca 1980 erano stati boicottati dagli Stati Uniti, dalla Germania Ovest e da una sessantina di altri paesi, quelli di Montreal e prima ancora quelli di Monaco del ’72 erano stati un disastro finanziario, e alla fine solo Los Angeles presentò la candidatura al Comitato olimpico internazionale (Teheran la ritirò all’ultimo minuto).
Preoccupati di doversi accollare debiti per anni e anni a venire, i cittadini di Los Angeles – e lo stesso Ueberroth – votarono perché la città non si facesse carico di un eventuale deficit. Il Comitato olimpico internazionale rimase interdetto, ma alla fine dovette piegarsi e accettare che le Olimpiadi sarebbero state gestite finanziariamente da una società privata, una condizione che la costrinse a modificare il proprio statuto. Ueberroth riuscì a mantenere una gestione finanziaria particolarmente accorta, che ruotò intorno a un accordo-record da 225 milioni di dollari con il network ABC per i diritti televisivi.
Le spese furono mantenute sotto controllo con il pugno di ferro: era necessaria un’approvazione dei vertici del comitato organizzatore per ogni somma superiore ai mille dollari, mentre in tutti i casi possibili furono riutilizzati impianti ed edifici già esistenti in città. I Giochi si rivelarono un successo in tutti gli aspetti economici, dai contratti con gli sponsor, da cui vennero ricavi per 130 milioni di dollari, alla vendita dei biglietti, che fruttarono altri 140 milioni. I profitti, alla fine, furono circa quindici volte superiori alle caute previsioni di Ueberroth: 215 milioni di dollari (devoluti in beneficenza).
Nonostante il boicottaggio dei paesi del blocco sovietico e le critiche per l’eccessiva commercializzazione dell’evento – che alcuni soprannominarono the Hamburger Olympics – il magazine TIME scelse Ueberroth come uomo dell’anno. Nell’edizione 1983 erano stati Ronald Reagan e Jurij Andropov; nel 1985 sarebbe stato Deng Xiaoping.
Da allora, però, le storie di successo sono mancate. Tutte le edizioni successive a quella del 1984 sono state una perdita netta per le amministrazioni pubbliche locali e nazionali. In Spagna il governo, la città e la regione di Barcellona (sede delle Olimpiadi 1988) ci rimisero oltre 6 miliardi di dollari. Ad Atene il rosso delle casse pubbliche, dopo le Olimpiadi 2004 che batterono tutti i precedenti record di costi, è stato di oltre 10 miliardi (su spese complessive di 16) e secondo molti ha contribuito al disastro dei conti del paese. A Pechino – che per i giochi del 2008 batterono il record di spesa appena stabilito da Atene – il costo netto per le casse pubbliche è stato addirittura di quaranta miliardi di dollari.
3. Altri benefici
Insomma, dalle Olimpiadi non si guadagna, se stiamo alle spese di organizzazione e ai ricavi che vengono dai biglietti o dagli sponsor. E questo porta alla seconda domanda: ci sono benefici di lungo periodo sull’economia dei paesi ospitanti? Gli economisti si fanno questa domanda da molto tempo, ma sembra che sia molto difficile rispondere in modo univoco.
Per dare un’idea del dibattito, viene in aiuto una selezione di estratti e risultati di 14 articoli scientifici pubblicati a partire dal 2002, fatta dal progetto Journalist’s Resource dello Shorenstein Center di Harvard. Per prima cosa, ci sono le previsioni dell’impatto della manifestazione che vengono fatte quando mancano ancora anni all’evento. Uno studio del 2011 ha concluso che c’è uno scostamento tra quelle previsioni – che tendono a evidenziare effetti positivi per l’occupazione e la crescita economica per molti anni a venire – e le ricerche realizzate dopo la fine dei Giochi. Le previsioni ottimistiche non vengono quasi mai confermate, sia perché i modelli economici hanno difficoltà a tener conto di tutti gli effetti, sia perché gli studi fatti prima dell’evento sono spesso commissionati dai favorevoli all’iniziativa e possono quindi essere influenzati da pregiudizi altrettanto favorevoli.
Previsioni a parte, gli effetti benefici più citati dopo l’evento riguardano la creazione di posti di lavoro e l’aumento del turismo. Uno studio del 2002 ha concluso che, perfino nel caso di Los Angeles, gli effetti economici di lungo periodo sull’occupazione sono stati assenti: «5.043 lavori a tempo pieno o part-time» che sembrano «completamente transitori». Inoltre, «non ci sono lasciti economici che possano essere individuati una volta che i Giochi hanno lasciato la città. Los Angeles non è stata visibilmente toccata dall’esperienza; sicuramente non è stata trasformata». Un articolo del 2010 sulle Olimpiadi invernali del 2002 a Salt Lake City dice che l’evento «non ha avuto un impatto a lungo termine sul commercio o l’occupazione complessiva».
Conclusioni simili arrivano dal caso di Atlanta nel ’96: anche se la crescita economica dell’area negli anni dei Giochi fosse da attribuire alle spese per l’evento, il settore pubblico avrebbe ottenuto gli stessi risultati – in termini di posti di lavoro creati – spendendo la stessa cifra in più tradizionali progetti di sviluppo.
A scorrere gli estratti e le conclusioni degli studiosi, il messaggio ricorrente sembra chiaro: non è facile rilevare effetti benefici chiari e duraturi, ammesso che ci siano. «Le Olimpiadi di Pechino ha potuto avere solo un impatto limitato sul brand della città», scrive uno studio; «gli effetti economici a lungo termine [di Atene 2004] appaiono piuttosto modesti», conclude un altro. Per le Olimpiadi di Sydney del 2000, alcuni ricercatori hanno pensato un modello che simula gli effetti sull’economia australiana nell’arco di 12 anni e hanno trovato una crescita dello 0,3 per cento nella sola regione di Sydney, con «pochi effetti» sul resto del paese. Gli effetti più importanti delle Olimpiadi di Seul del 1988 sembrano essere stati soprattutto politici, nel percorso del paese verso la democratizzazione negli anni di una tumultuosa crescita economica.
Ma c’è almeno uno studio che trova benefici dalle Olimpiadi: è comparso nel 2011 su The Economic Journal a firma di Andrew Rose e Mark Spiegel. Gli studiosi hanno rilevato un effetto positivo «statisticamente robusto, permanente e ampio» – una crescita di oltre il 20 per cento – sulle esportazioni del paese ospitante. Ma c’è una precisazione importante da fare: la crescita sembra uguale per i paesi che si candidano e poi non ottengono l’assegnazione. «Concludiamo che l’effetto olimpico sul commercio è da attribuibile al segnale che manda un paese quando si candida ad ospitare l’evento, piuttosto che al fatto di ospitare davvero un mega-evento».
Anche se gli economisti sono in difficoltà nel trovare modelli chiari di successo, ci sono casi in cui le Olimpiadi hanno effettivamente trasformato – in meglio – alcune città, con effetti economici evidenti.
Quello più chiaro è Barcellona, che in vista dei Giochi del 1992 è stata profondamente cambiata: per fare solo un esempio, i tre chilometri di lungomare che si vedono oggi sono stati creati demolendo tetri edifici industriali. Prima delle Olimpiadi si può dire che Barcellona non avesse neppure una spiaggia, e certo la manifestazione è stata decisiva per la rinascita economica della città e a farne una delle mete turistiche preferite in Europa. Per dare solo due cifre, l’aeroporto di Barcellona gestì 2,9 milioni di passeggeri nel 1991, che nel 2002 erano diventati 21 milioni. L’incidenza del turismo sull’economia cittadina è passata nello stesso periodo dal 2 al 12,5 per cento, con 12.500 posti di lavoro creati nel solo settore turistico.
Insomma: non è certo che le Olimpiadi siano un disastro, dal punto di vista economico. C’è qualche caso di successo. Ma l’Italia, ammesso che vinca il processo di candidatura, può essere in grado di rientrare tra i pochi fortunati?
4. Siamo pronti?
Negli ultimi anni, non c’è quasi bisogno di ricordarlo, l’Italia ha dato pessimi esempi nell’organizzazione di grandi manifestazioni – e le Olimpiadi, per loro stessa natura, sono particolarmente a rischio di finire preda di interessi privati e di speculazione edilizia. Alessandro Olivaha ricostruito su Pagina99 la storia degli sprechi nell’organizzazione dei grandi eventi sportivi italiani: dagli stadi faraonici per Italia ’90, con il loro contorno di inchieste e di stazioni ferroviarie aperte per 8 giorni, agli appalti pilotati dei mondiali di nuoto 2009 tenuti proprio a Roma. Anche Torino 2006, sede dei giochi invernali, ha avuto un impatto positivo sulla città ma ha lasciato inutilizzate molte strutture nelle aree montane circostanti.
Quello che sembra mancare, stando agli ultimi grandi eventi organizzati nel nostro paese, è un modello di gestione chiaro, efficiente e trasparente (lo stesso che è mancato nell’organizzazione dei mondiali di Brasile 2014, come ha mostrato Fabrizio Patti qui su Linkiesta). Le inchieste intorno a Expo 2015, così come gli scandali intorno alla Protezione Civile, hanno mostrato gli effetti disastrosi dell’operare in continua deroga delle procedure regolari, in nome dell’emergenza o per rispondere a ritardi nell’avvio dei lavori. Se l’Italia vorrà ospitare le Olimpiadi, il successo o il fallimento dipenderanno in primo luogo dalla capacità di dotarsi di regole chiare e funzionanti, per evitare sprechi e scandali. In altre parole, dalla politica e dalla classe dirigente del nostro sport – una delle tante che, negli ultimi anni, non è sembrata in grado di portare avanti alcun rinnovamento. Non sembra che ci siano molti motivi per avere fiducia.