Telefonia, assicurazioni, trasporto pubblico, servizi bancari, postali, aeroportuali, editoria. Nella bozza del Decreto legge sulla concorrenza, in discussione oggi al Consiglio dei Ministri c’è di tutto. In particolare, tra le tante proposte di semplificazione e di deregolamentazione, quella che sta preoccupando da mesi il mondo dell’editoria italiana, soprattutto quella medio-piccola, riguarda uno solo dei punti in discussione, quello sulla legge Levi, ovvero la legge che dal 2011 tutela il mercato del libro imponendo un limite agli sconti fissato al 15% .
Le modifiche all’ordine del giorno oggi, stando alla bozza del Ddl, se approvate svuoterebbero completamente la legge Levi e riporterebbero il mercato alla situazione pre 2011, con sconti liberalizzati e prezzi non più “liberamente fissati”, ma “suggeriti”, una situazione che secondo molti editori indipendenti renderebbe il mercato italiano una sorta di far west, mettendo in serio pericolo un parte importante della filiera editoriale italiana.
Certo, la Levi non è perfetta, tutt’altro. E il paradosso di vedere che oggi a difenderla ci siano proprio coloro che la criticarono al momento della sua promulgazione ci dà, con una buona approssimazione, la misura della drammaticità del problema. «La Legge Levi», sostiene Pietro Del Vecchio, editore indipendente laziale , «è un pasticcio normativo, un regalo alle concentrazioni di potere che governano l’editoria italiana. […] è un compromesso al ribasso che non ci tutela minimamente e fornisce a chi ne ha la possibilità di barare legalmente».
Del Vecchio ha ragione, la Legge Levi è un pasticcio normativo: nata come legge anti-Amazon, è una legge sbagliata che va nella giusta direzione. Un paradosso? Sì. Perché? Perché riesce a riconoscere la necessità di limitare gli sconti per garantire il pluralismo del settore ma, nello stesso tempo, fissa questo limite troppo in alto — al 15% — il triplo rispetto a quanto sanciscono altre leggi europee analoghe. Un’asticella troppo alta per garantire gli editori e i librai indipendenti . Non è un caso che le leggi simili in vigore nel resto d’Europa quell’asticella o non la contemplano, o la mettono molto più bassa.
In Francia una legge sul prezzo dei libro esiste dal 1981 e fissa lo sconto massimo sul prezzo di copertina al 5%, arrivando in alcuni casi al 9%. Stessa soglia — il 5% — che troviamo nella legge svizzera, del 2011. In Germania una legge analoga, del settembre 2002, addirittura non prevede la possibilità di sconti sul prezzo finale, imposto dall’editore, se non in alcuni casi specifici, come la vendita alle biblioteche scientifiche (che può godere di uno sconto massimo del 5%) o alle biblioteche comunali, confessionali e delle forze armate (al massimo 10%).
Ma perché gli sconti sui libri sono un male per il mercato? Questa è la domanda che molti dei lettori si fanno. Ed è vero, sembrerebbe un paradosso il voler vietare gli sconti sui libri in un momento in cui i libri si vendono con sempre maggiore difficoltà, o non si vendono affatto. Eppure non lo è. I vantaggi di un mercato del libro regolamentato in questa maniera esistono sia per gli editori che per i lettori.
C’è un dato in particolare che è interessante osservare per capire l’importanza di regolare gli sconti in libreria, un dato che emerge dall’ultimo rapporto dell’AIE sul mercato del libro in Italia e che prova l’utilità, almeno parziale, della legge Levi: nel 2014 il prezzo dei libri è calato mediamente del 5%.
Gli sconti contribuiscono a fare aumentare il prezzo del libro per una semplice ragione: gli editori, costretti a far fronte all’acquisto a prezzi fortemente scontati da parte dei rivenditori, si ritrova a non riuscire a far quadrare i conti e, per avere dei margini economici per sopravvivere, alzano il prezzo di copertina.
In un articolo apparso sul Corriere della Sera del 19 febbraio , Ida Bozzi ha raccolto un po’ di voci a proposito, a partire da Andrea Palombi, direttore di Nutrimenti e membro di Odei — l’Osservatorio degli Editori Indipendenti, in prima fila nello schierarsi contro l’abrogazione delle Legge Levi — il quale ha dichiarato: «Una liberalizzazione potrebbe sembrare virtuosa a chi non conosce il mercato del libro, ma chi lo conosce sa che non consentirebbe la concorrenza ma produrrebbe un monopolio o un oligopolio».
Giudizi contrari all’abrogazione, a quanto scrive il Corriere, sono arrivati anche da Feltrinelli e da Gems che hanno parlato rispettivamente dell’operazione come di “pericolo di un imbarbarimento del mercato” e di “sciocchezza”.
Certamente, la legge così com’è sembra pensate per proteggere le grandi concentrazioni editoriali — quelle che hanno in mano l’intera filiera del libro dalla produzione, alla distribuzione, alla vendita — ma almeno ha il pregio di riconoscere qual è il problema. La sua versione stralciata, invece, non individua più nemmeno il problema, e, facendo tornare la situazione del mercato a come era prima della legge Levi, rappresenta un grave passo indietro per tutta l’editoria italiana, nonché un colpo, probabilmente mortale, per molti di quei piccoli editori che per quanto singolarmente marginali, rappresentano tutti insieme circa il 40 per cento del mercato del libro in Italia, nonché la garanzia di pluralità della produzione editoriale.
La pluralità del mercato significa per gli editori una sana concorrenza, concorrenza che per esistere ha bisogno di regole, non della loro assenza. Perché in un mercato senza regole a vincere è il più forte, il più grosso, uno che se è abbastanza grosso e abbastanza forte alla fine resta in piedi da solo, soffocando tutto quello che ha intorno. E se questa è una cosa che magari potremmo anche accettare per il mercato delle lavatrici o dei telefoni, non possiamo dire lo stesso per il mercato culturale, un mercato che fonda il suo valore e la sua ricchezza proprio sulla pluralità dei giocatori in campo.
Oggi quella pluralità è messa a repentaglio dalla spada di Damocle che gravita sulla testa delle Legge Levi, ma non solo. Ci sono altri due fatti che destano preoccupazione, uno già effettivo, l’altro che potrebbe presto diventarlo.
Il primo è la concentrazione della distribuzione libraria sancito dall’acquisto di PDE da parte di Messaggerie , una acquisizione che ha formato un polo distributivo dal sapore monopolista che spaventa, e molto, i piccoli e medi editori. Il secondo, ancora più clamoroso anche se ampiamente preannunciato, è l’ufficializzazione della volontà da parte di Mondadori di acquisire RCS Libri , accordo che, se raggiunto, darebbe vita a un colosso editoriale che da solo occuperebbe il 40% del mercato totale, il 70 % dei tascabili e il 25 % della scolastica.