Renzi aveva parlato di «una rivoluzione copernicana». Ma ancora degli effetti miracolosi del Jobs Act non ce ne siamo accorti, o forse se ne accorgeranno in pochi. Probabilmente non i più giovani. I decreti attuativi approvati prima di Natale non sono ancora stati pubblicati in Gazzetta ufficiale, e per l’entrata in vigore del contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti ci vorrà metà febbraio. Ma niente ancora assicura che con i nuovi contratti «molti giovani usciranno dal mondo della precarietà per entrare in quello fatto di tutele e diritti fino ad oggi sconosciuti», come si legge sul sito del Partito democratico. Anzi, a parità di condizioni, secondo Emmanuele Massagli, presidente del centro studi sul lavoro Adapt, «l’impresa ha tutto l’interesse ad assumere un lavoratore più esperto e più produttivo, che costa meno ed è più facilmente licenziabile di prima». Insomma, «l’occupazione giovanile alla fine non sarà molto aiutata».
Le conseguenze sull’occupazione Secondo le previsioni di Prometeia diffuse a fine gennaio, nel 2015 il tasso di disoccupazione rimarrà al 12,8%, fermo al livello medio del 2014. Anche se i benefici introdotti dal Jobs Act porteranno alla fine a un aumento di 110mila occupati in più. «Il Jobs Act potrà avere un impatto positivo sull’occupazione anche alla luce dei timidi segnali di ripresa che stanno arrivando dal mercato», è la previsione di Federico Vione, amministratore delegato di Adecco. «Riteniamo plausibili sia le stime di Unioncamere, che prevedono un incremento delle assunzioni a tempo indeterminato del 15% rispetto al 2014, che quelle relative al nostro settore che indicano una crescita del 17% dei contratti di somministrazione». Anche se «l’impatto maggiore sull’occupazione si avrà quando miglioreranno le condizioni economiche».
Non solo. Il bonus valido per i primi tre anni dei neoassunti potrà essere usato anche da parte dei datori di lavoro che vogliano stabilizzare i lavoratori già presenti in azienda trasformando il contratto a termine o a progetto in uno a tempo indeterminato. Quindi bisognerà capire quanta sarà l’occupazione aggiuntiva vera e propria. «Quello che si spera», dice Massagli, «è che l’incentivo aiuti chi oggi ha paura ad assumere per motivi di costo del lavoro, e non solo chi pensava già di assumere persone».
E quando il miliardo finirà? Per ora le aziende aspettano che qualcosa si smuova. «Registriamo una grossa aspettativa positiva», dice Emmanuele Massagli, «il licenziamento più semplice e meno costoso più la decontribuzione è un cocktail interessante per le imprese. Ma ancora si attende che le norme vadano in Gazzetta ufficiale prima procedere». Ma da gennaio alcune imprese hanno già cominciato ad assumere, sfruttando gli sconti contributivi per i primi tre anni previsti dalla legge di stabilità 2015. Quindi senza licenziamento facile. «Quello che interessa in fondo, più che l’incentivo normativo, è l’incentivo economico», aggiunge Massagli. «La cosa positiva è che si tratta di una norma molto semplice rispetto alle complicazioni del passato». Basta assumere per avere l’incentivo: la norma dice che per le assunzioni a tempo indeterminato effettuate dal 1 gennaio al 31 dicembre 2015 è previsto uno sconto dei contributi Inps per una durata massima di tre anni per un totale massimo di 8.060 all’anno.
Ma, attenzione, i rubinetti non saranno aperti all’infinito. Una volta finite le risorse stanziate, 1 miliardo di euro, il rubinetto dovrebbe essere chiuso. Il rischio, quindi, è che finito il miliardo stanziato per le assunzioni del 2015, la “rivoluzione copernicana” frutto della combinazione di sconti sul costo del lavoro più articolo 18 depotenziato esaurisca il suo effetto in circa sei mesi. Entro luglio al massimo, dicono le previsioni. Emmanuele Massagli fa i conti: «Ammettendo che tutti ottengano l’incentivo massimo di 8.060, ci saranno in tutto 125mila contratti. Se ipotizziamo invece che non tutti ottengano il massimo, potranno esserci 200mila contratti, che si concentreranno tra febbraio e luglio».
E visto che le aziende hanno già cominciato ad assumere sfruttando gli incentivi economici previsti dalla legge di stabilità, «bisognerà anche capire quanto resterà di questo miliardo per le assunzioni con il nuovo contratto a tutele crescenti che partiranno da febbraio/marzo». L’Inps, per il momento, si è impegnato a comunicarlo.
Questa non è una riforma per giovani Altro capitolo sono gli effetti del Jobs Act sulla disoccupazione giovanile, che a dicembre 2014 è scesa (si fa per dire) al 42 per cento. Il presidente del Consiglio, sin dal nome della legge delega, ha sempre strizzato l’occhio agli under 35, presentando la riforma come una norma salva giovani. Ma il nuovo contratto a tutele crescenti non sembra essere una garanzia. La domanda da farsi è: a parità di condizioni, cioè decontribuzione e licenziamento facile, perché un’impresa dovrebbe assumere un giovane con il contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti? «L’impresa ha tutto l’interesse ad assumere un lavoratore più esperto e più produttivo», risponde Massagli. «Il lavoratore con più esperienza è più competitivo. Quindi se ci sarà occupazione aggiuntiva, è più probabile che riguarderà i lavoratori esperti e non i più giovani».
Per il primo impiego e l’inserimento professionale resta lo spigoloso apprendistato. «Di fatto però», dice Emmanuele Massagli, «il contratto a tutele crescenti mangia l’apprendistato professionalizzante, che è più rigido a livello normativo e sul breve termine anche meno conveniente sul piano di costo del lavoro». L’unica salvezza per l’apprendistato, in attesa di altre novità nei prossimi decreti attuativi, potrebbe essere la Garanzia giovani, che però rischia di essere ricordata come un grande flop: a otto mesi dall’attuazione, su 1,7 milioni di Neet presenti in Italia solo 364mila si erano iscritti, e di questi solo il 39% ha fatto il primo colloquio. E tra le offerte di lavoro, solo il 2% riguarda l’apprendistato.
Resteranno le altre formule contrattuali sopravvissute alla semplificazione. Dal decreto sulla semplificazione delle tipologie contrattuali, in base alle prime indiscrezioni, ci si aspetta l’eliminazione di lavoro a chiamata, cococo, associazione in partecipazione e si parla anche di presunzione di subordinazione per le partite Iva. Le dimissioni di Maurizio Sacconi da capogruppo del Nuovo centrodestra dipenderebbero anche da queste decisioni. «Bisogna chiedersi se il giovane che già fatica a entrare nel mercato del lavoro con le altre formule contrattuali, riuscirà a farlo con il tempo indeterminato», dice Massagli. «Tanto più che per il tutele crescenti dovrà vedersela con i lavoratori più esperti». A questo va aggiunto l’«autogol» della legge di stabilità, così definito da Renzi stesso, per l’aumento della tassazione e della contribuzione sulle partite Iva, che spesso sono l’ultima spiaggia per un ragazzo che voglia entrare nel mercato del lavoro. «Le partite Iva, parliamo di quelle non ordinistiche, reggono oggi i nuovi lavori che non accettano per propria natura la subordinazione», dice Massagli. «La tutela di questi nuovi lavori, che riguardano soprattutto gli under 35, nel Jobs Act manca totalmente». La previsione, secondo Massagli, è «un miglioramento dei dati del mercato del lavoro, anche se non strabiliante, nel breve termine, ma una costanza dei dati negativi sull’occupazione giovanile».
Secondo Federico Vione di Adecco, invece, «le ricadute positive in termini occupazioni interesseranno tutti, in particolar modo i più giovani». Ma, aggiunge, «è importante ricordare che oggi una percentuale compresa tra il 18 e il 20% dei giovani disoccupati, oltre il 42% della popolazione tra i 15 e i 24 anni in cerca di un impiego, non trova lavoro non per colpa della recessione ma a causa del mismatch tra domanda e offerta. Sono molte le imprese che già adesso hanno grande esigenza di profili operativi o professionali specializzati che sembrano non essere disponibili. Questo dato deve far riflettere sulla necessità di attivare interventi formativi consistenti e mirati in grado di colmare il crescente gap tra competenze offerte dal mondo dell’istruzione e le capacità richieste dal mercato del lavoro». Che significa: una riforma che crei un ponte tra scuola e lavoro, per il momento assente dalla “Buona scuola”.
Politiche attive cercasi Oltre al decreto di riordino delle tipologie contrattuali, l’altro attesissimo decreto della legge delega è quello sulle politiche attive del lavoro con la creazione dell’Agenzia nazionale per l’impiego, che dovrebbe centralizzare i servizi per il lavoro oggi in mano alle province. Anche se, commenta Federico Vione di Adecco, «nell’attuale fase di confronto su questo tema non sembra previsto alcun ruolo delle agenzie per il lavoro, e questo a nostro parere rappresenta un limite importante già vissuto nella fase iniziale di attuazione della Garanzia giovani in Italia».
Per capire cosa accadrà in termini di politiche attive, però, bisognerà buttare un occhiata alle riforme costituzionali. Una dipende dall’altra, perché la riscrittura del titolo V della Costituzione dovrebbe anche prevedere l’accentramento di parte dei servizi per il lavoro in mano agli enti locali. «L’agenzia nazionale trova ragione se va in porto il riaccentramento», dice Massagli. Le politiche attive potrebbero finire così nelle mani dell’Inps, è questa l’ipotesi più probabile, che le sommerebbe quindi alle politiche passive e alla previdenza diventando una sorta di grande mostro statale.
Ma siamo ancora nel campo delle ipotesi. Di questo capitolo, fondamentale per il ricollocamento di chi perde il lavoro, ancora non si sa nulla. «Eppure anche questo è uno dei capitoli più importanti per i giovani», ribadisce Massagli. «Se si vogliono davvero attuare politiche giovanili serve anche una riforma dell’istruzione secondaria e terziaria per favorire il passaggio scuola lavoro. La Buona scuola è piena di buone proposte, ma finora prevede solo l’assunzione di 120mila persone. Per i giovani non si vede ancora niente».