Troppo semplice e relativamente inutile definire la Garanzia Giovani un “flop” o una “catastrofe”. Sicuramente sono presenti evidenti inefficienze e incapacità della tecnostruttura nazionale e locale per usare bene questo strumento. Tuttavia lo scopo della Garanzia Giovani non è quello di garantire un lavoro, ma piuttosto rappresentare un formidabile “test” per verificare la capacità del territorio di realizzare uno strumento così ambizioso. L’innovazione rispetto al passato è il costante monitoraggio, dal quale risultano più di 450mila adesioni e 233mila prese in carico.
La distribuzione per “intensità” di aiuto vede una forte concentrazione nelle regioni del Sud dei profili “medio-alto” e “alto”, ma l’effetto potrebbe dipendere da come è stato costruito il profiling.
Rispetto alle prese in carico, i posti disponibili sono appena 9.400. Quale giudizio dare di questi numeri ? Risulta banale che le possibilità di ottenere un lavoro a tempo indeterminato (circa 1.000 sul totale) è praticamente impossibile, eppure il “fallimento” non è il basso numero di opportunità, dato facilmente prevedibile viste le dinamiche economiche, ma piuttosto altri fattori che ne hanno portato l’inevitabile epilogo dopo ormai quasi un anno dal suo avvio.
Nel 2014 con Francesco Pastore evidenziavo chiaramente tutti i limiti del sistema, nulla delle raccomandazioni fatte dall’ex-ministro del Lavoro Enrico Giovannini sono state oggetto di approfondimento, neppure quella che suggeriva una riallocazione del personale presente nei centri per l’impiego. Manca ancora oggi un modello di accreditamento dei privati analogo o almeno simile in tutto il territorio nazionale: ad oggi ci sono più differenze tra Emilia Romagna, Puglia, Lazio e Lombardia che tra Regno Unito, Germania e Svezia.
Manca ancora oggi un modello di accreditamento dei privati analogo o almeno simile in tutto il territorio nazionale: ad oggi ci sono più differenze tra Emilia Romagna, Puglia, Lazio e Lombardia che tra Regno Unito, Germania e Svezia
All’attuale governo contesto soprattutto un grossolano errore di comunicazione, già evidenziato sul sito de LaVoce.info qualche mese fa, ovvero quello di aver creato delle aspettative nei giovani disoccupati o “Neet” di un possibile lavoro, senza la minima possibilità che questo potesse realmente accadere.
Tuttavia, la prima ad aver commesso tale errore è la stessa Commissione, come evidenzia la Corte dei Conti Europea. In sintesi in Italia, Portogallo, Irlanda e Francia ha sviluppato un ambizioso programma volto alla possibilità di offrire un offerta di lavoro qualitativamente valida con risorse assolutamente inferiori a quelle necessarie per realizzarlo concretamente. In altre parole, in un continente come quello europeo, pensare di risolvere la disoccupazione giovanile con appena 16 miliardi di euro non è possibile, aldilà di qualsiasi errore commesso dai singoli Paesi.
Altro errore commesso dalla Commissione è stato quello di prendere come “idealtipo” di Garanzia Giovani i modelli realizzati nei Paesi scandinavi, senza studiarne prima eventuali valutazioni (non positive) e soprattutto commettere il banale errore di non considerare neppure per un momento l’effetto prodotto dalla path dependence (il percorso passato) di quei Paesi, ovvero che le chance occupazionali dei giovani svedesi o danesi potrebbero essere dovute più a fattori economici (es. export, decentramento salariale) oppure a una spesa in politiche attive del lavoro e servizi pubblici per l’impiego molto generosa (come in effetti avviene con la Flexicurity) piuttosto che dalla sperimentazione della Garanzia Giovani.
Tornando al caso italiano, manca ancora una piattaforma nazionale per facilitare l’incontro tra domanda ed offerta di lavoro, il portale di ClicLavoro rimane ancora distante da questo obiettivo, Infojobs o Face4Job permettono maggiori opportunità di successo. In tal senso, basterebbe una partnership con questi strumenti implementandoli con una piattaforma che studi le fonti amministrative, per sviluppare meglio l’attività di marketing territoriale dei servizi per l’impiego.
Altro aspetto è quello di come sono stati spesi i soldi: ben 360 milioni sono andati in attività di orientamento. Ma visto che l’Italia è l’unico Paese (insieme a Malta) che non studia le performance dei propri servizi pubblici per i’impiego, nei fatti non sapremo se questo servizio affiancato alla presa in carico produca dei risultati convincenti.
In generale, non sono stati definiti nel programma operativo “i risultati da ottenere” nei mesi successivi all’avvio con l’eventualità di possibili sanzioni, il che ha prodotto l’assoluta de-responsabilizzazione dell’attuazione del programma, ovvero molti dirigenti e funzionari incaricati del programma hanno avviato lo strumento nonostante i suoi chiari limiti, consapevoli di non essere valutati così come è successo nelle precedenti esperienze (una su tutta le politiche attive ai cassintegrati in ceroga, una delle peggiori politiche volte alla ricollocazione realizzata in Europa negli ultimi trent’anni).
Mentre proprio la presenza di eventuali sanzioni, avrebbe favorito (per il timore di non raggiungere i risultati) l’assoluta partecipazione attiva da parte dei vari attori coinvolti, si sarebbero immediatamente evidenziate le problematiche e l’attuazione sarebbe stata molto più complessa nella fase di programmazione, ma probabilmente più adatta alla realtà.
In un continente come quello europeo, pensare di risolvere la disoccupazione giovanile con appena 16 miliardi di euro non è possibile, aldilà di qualsiasi errore commesso dai singoli Paesi
Nella distribuzione delle risorse stanziate, c’è un secondo problema, l’aver impegnato pochissime risorse per l’autoimpiego e la mobilità occupazionale, unici strumenti in grado di dare concrete opportunità di lavoro soprattutto ai giovani meridionali. A questo si aggiunge che nonostante sia palese che la formazione professionale soprattutto per i più istruiti sia piuttosto inutile, vede significativi investimenti (ancora una volta si rischia di favorire più i formatori che i formati).
Infine, dato il quadro generale appena descritto, è necessario ridefinire l’attuale gestione delle politiche attive del lavoro e dei servizi pubblici per l’impiego. Tuttavia, per effetto di molteplici pressioni politiche, il timore è che la riforma produca un vero e proprio “mostro”: un carrozzone pubblico a livello centrale con poteri pressoché identici a quelli attuali, una ventina di agenzie regionali totalmente inutili e uno pseudocompito nella gestione dei Servizi pubblici per l’impiego affidato alle città metropolitane. In una visione gattopardesca, si cambieranno i nomi, qualche dirigente, ma non cambia nulla rispetto all’attuale situazione.
Per evitare questo, il governo Renzi deve far proprio il motto del Maestro Yoda: “Fare, o non fare! Non c’è provare!”. Data che questa riforma si sta facendo con i “fichi secchi” ovvero senza soldi, tra Stato, ItaliaLavoro, Isfol, Inps, Camere di Commercio, Regioni e Province è necessario sacrificare uffici, ridurre personale e aumentare eventuali responsabilità e competenze a seconda dei vari livelli istituzionali. Tra i principali obiettivi: va creato un Call center nazionale che sostituisca gli uffici amministrativi sul territorio; va costituito uno Sportello unico del lavoro (razionalizzando strutture e personale dei centri per l’impiego, Inps e Camere di Commercio); vanno fatti investimenti nella rete Eures; va costruita una piattaforma online migliore di quella che abbiamo; va sviluppato un modello di accreditamento ai privati prendendo spunto dal modello lombardo (redistribuzione delle risorse a seconda dei risultati; Compliance 231).