La nuova vita di Emino: il rapper diventato terrorista

La nuova vita di Emino: il rapper diventato terrorista

La notizia è passata inosservata, ma il 19 marzo 2015 gli account controllati dall’Isis erano fieri di annunciare che, tra le loro file, era arrivato un nuovo adepto. Si tratta di Marouane Douiri, alias Emino, un rapper tunisino semi-sconosciuto che ha proclamato il suo giuramento di fedeltà al califfo, Abu Bakr al Baghdadi, con un post su Facebook. Nella fotografia appare abbracciando una capra (non è chiaro perché), indossa pantaloni larghi, porta una kefiah e sostiene di essere in Iraq. La sua conversione all’Isis ha provocato molto clamore nell’ambiente. I suoi fan sono rimasti sconvolti. Alcuni non ci credono nemmeno.

Emino era uno dei pochi rapper che, durante il regime di Ben Alì, aveva espresso con forza la sua opposizione alla dittatura. Per il resto, coltivava l’immagine classica del rapper/gangster. Canzoni in inglese, vestiti firmati, occhiali scuri e belle donne. Decantava l’uso delle droghe, gli alcolici, il culto del lusso. Nei suoi versi la rabbia era di maniera, per conformarsi ai temi di ogni rapper che viene dal ghetto, o da una qualsiasi banlieue. Il tutto, senza mostrare un talento eccessivo.

Su quest’ultimo punto il giornale scandalistico inglese Daily Mail è impietoso: “Un altro rapper fallito che passa all’Isis”. Un altro, sì, perché prima di lui c’era stato Deso Dogg, alias Denis Cuspert, rapper tedesco che, dopo la conversione all’Islam, era partito alla volta dell’Egitto e poi della Siria per combattere nello stato islamico. Verso aprile 2014 erano circolate voci della sua morte in un combattimento contro un altro gruppo islamista che si sono rivelate, poi, prive di fondamento.

Altro destino, invece, è toccato a Douglas McArthur McCaine, il primo cittadino Usa che era passato allo stato islamico. Era dell’Illinois. Chi lo conosceva lo descrive come un ragazzo simpatico, buffo, con cui era sempre divertente uscire. Giocava a basket, lavorava in un ristorante, ogni tanto si trovava con gli amici a fare rap. Aveva avuto qualche piccolo problema con la giustizia. La notizia della sua conversione all’islam aveva sorpreso tutti i suoi amici. Quella della sua partenza per la Siria li aveva sconvolti. “Sono con i miei fratelli, ora”, aveva scritto, dal califfato. Ad agosto 2014 muore in uno scontro con il Free Syrian Army.

Infine, si è creduto che anche Jihadi John, il militante che aveva tagliato la testa a Foley e che nascondeva il volto sotto un passamontagna, fosse un musicista hip hop londinese di origine egiziana, Abdel Bary, alias J-Linny. A parte la somiglianza fisica, Bery aveva avuto una conversione radicale all’Islam. Le sue canzoni, che prima inneggiavano al consumo di droga, alla violenza e alla vita in un riformatorio, dopo il 2012 diventano attacchi ai giovani che vanno in discoteca, bevono e si drogano, senza pensare alle famiglie. La vena moraleggiante non perde la violenza degli inizi: Bery non sarà Jihadi John, ma parte comunque per la Siria. “I leoni verranno a prendervi, sporchi infedeli. E vi taglieranno la testa”, scrive su Twitter.

La prima vita di Emino

Secondo la biografia pubblicata sul suo sito, Emino comincia a dedicarsi al rap all’età di nove anni, cioè nel 1999. A tredici anni pubblica il suo primo album (dal titolo profetico: “Mujahedin”) che viene censurato. Poi, nel 2006, fa la sua prima tournée, definita “trionfale”, per poi allontanarsi dalle scene per motivi personali. La bio lascia pensare che abbia lavorato sul suo stile musicale (“tornerà sulle scene nel 2007, con uno stile nuovo e sul suono più forte”).

Emino, che riecheggia il nome di Eminem, non è il classico ragazzo del ghetto che emerge a forza di versi e botte. Nasce in una famiglia della classe media tunisina e fa una vita molto normale, almeno secondo gli standard occidentali. La notorietà gli porta subito dei soldi, con cui mette in piedi uno studio di registrazione e una etichetta musicale. Il suo primo album ufficiale, Don Cameleon, esce nel 2009, e raggiunge “un grande successo nazionale”. Nel 2010 si afferma con un concerto privato in un teatro, attirando 400 spettatori: il menù comprende raggae, hip hop e r&b. Ha raggiunto “un livello di maturità artistica straordinario”, scrive sul suo sito, per “la capacità di osservazione e per la finezza musicale”.
 

Qui si possono ascoltare alcune canzoni di Emino
 

Prende, come è uso nell’ambiente, un soprannome, The Don, e costruisce la propria immagine di rapper sul modello americano. Le canzoni sono conformi al genere: amore violento (“posso rubarti l’identità e trasformare il tuo amore in oscenità”) e panorami di matrice americana (“ti ruberò l’anima e la porterò in un club di Cleveland”). È presente, come in ogni rapper che si rispetti, una notevole autocelebrazione (“Guardo al muro e agli altri allo stesso modo / e quando chiedo “Chi è dio” qualcosa risponde con il mio nome / così bello, così sciovinista e vano / lo chiamo amore vero ma tu mi dici “pazzo”) e la poetica del gangster (“non c’è bisogno di commettere un crimine per diventare criminale”) e la sfida alla società intera (“non vorresti che cambiassi? / non vorresti che mi sentissi diverso? / non vorresti poter guardare nei miei occhi e farmi sentire come vuoi?”). Vittimismo, volontà di potenza, celebrazione della ricchezza, della forza e del potere. Nulla di nuovo sotto il cielo dell’hip hop. Ma l’esaltazione della bella vita del duro, circondato da macchine e belle donne, in Tunisia assume un carattere in più, anche non volendolo: diventa una forma di impegno politico.

Emino cerca di restare calmo. “La rivoluzione non si commercializza”, aveva detto a chi aveva proposto concerti a tema. Una situazione in cui “ha saputo restare umile”, dice sul sito. Le sue canzoni, insieme a quelle di altri rapper, erano state la colonna sonora delle manifestazioni che hanno fatto cadere Ben Alì. Preferiva altro. Ma la sua visione di un mondo più trasgressivo e la sua ostilità al regime confluiscono nella lotta per la liberazione e, infine, si sposano con la battaglia per una maggiore libertà artistica. Non è casuale, sotto questo aspetto, la sua fotografia con Kenza Fourati, modella tunisina di fama internazionale. Siamo sempre di fronte alla figura della “bella donna” che accompagna ogni rapper che si rispetti, ma qui c‘è anche altro. Fourati aveva suscitato forti reazioni quando, nel 2013, aveva posato in bikini durante il Ramadan. Dopo la rivoluzione, era divenata paladina dei diritti degli artisti. “Siamo in un momento in cui siamo liberi, adesso. Dobbiamo saperlo sfruttare”, dirà.

È in questo contesto che cominciano i guai per Emino. Nel 2012 viene arrestato per possesso e consumo di droga. Finisce in prigione per otto mesi. Nel 2013 viene arrestato di nuovo, sempre per possesso di droga, e nel frattempo viene condannato a due anni di prigione, insieme ad altri rapper, per un altro processo relativo a dei versi contenuti nel video di una canzone. Aveva equiparato la polizia a “dei cani”. Alla notizia, la sua reazione è furiosa: «Cosa devo fare? Cercherò lo status di rifugiato politico. Con questa giustizia non sarò più tunisino. Diventerò senegalese, camerunense. Ma non tunisino: qui odiano i giovani». Poi parte per la Turchia. Sono vacanze, ma tornerà diverso.

Il jihadismo e il rap

Il fenomeno dei foreign fighter ha sollevato, fin dall’inizio, una certa inquietudine. In molti si sono interrogati sulle ragioni che spingessero giovani da tutto il mondo, in particolare da Paesi occidentali (o molto moderati come la Tunisia) ad aderire all’Isis. La Tunisia, come è stato ricordato dopo la strage al Museo del Bardo, è il primo Paese per numero di foreign fighter che hanno aderito all’Isis: sono circa tremila. Un dato che stona con l’idea, piuttosto diffusa, di un Paese tranquillo, in cui la transizione dalla dittatura alla democrazia avviene senza particolari transizioni. Un Paese che non si distingue per fenomeni di integralismo religioso. Cosa è successo?

Non è semplice spiegare qui le motivazioni del successo dell’Isis, almeno come capacità attrattiva.

Secondo Scott Atran, antropologo americano e francese, direttore nel Centre National de la Recherche Scientifique di Parigi, si tratta di un richiamo “al sublime”. Non è la religione la vera molla (molti non conoscono nemmeno il Corano), ma «una chiamata all’azione che promette la gloria e l’ammirazione degli amici. Il jihad è un datore di lavoro egualitario, offre opportunità per tutti, allo stesso modo. È fraterno, glorioso e bellissimo». Di solito chi parte ha frustrazioni, sue o ereditate, che vuole vendicare. Molti sono (o si sentono) emarginati. L’Isis invece offre un gruppo di amici che condivide le stesse avventure e che regala il sogno di un riscatto glorioso. Cosa desiderare di più?

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Certo, diagnosi del genere corrono sempre il rischio di generalizzare situazioni molto complicate. Partono, bene o male, dal presupposto che chi aderisce alla chiamata per il jihad stia commettendo qualcosa di strano. Si tratta di scelte che una persona normale, o in buone condizioni economiche, o con una buona educazione, non farebbe mai. Non è detto. Come spiega su Billboard Raffaello Pantucci, autore di We Love Death as You Love Life, libro sul fenomeno dei giovani rapper estremisti londinesi, «è presente insoddisfazione individuale, desiderio di ammirazione e ambizione. Ma le cose variano caso per caso». L’unico denominatore comune che l’autore riesce a individuare è solo «un sentimento di “anti-establishment”». Cioè odio, o ostilità verso l’ordine stabilito.

Come è evidente, non si tratta di una prerogativa di chi aderisce all’Isis. Come spiega sempre su Billboard Peter Neumann, dell’International Centre for the Study of Radicalisation and Political Violence del King’s College di Londra, è piuttosto una delle forme che assume «il fenomeno della controcultura. In molti sono attratti dall’hip hop perché è un modo per protestare e ribellarsi a una situazione difficile in cui vivono. Spesso si sentono marginalizzati, soli. Ed è proprio questo sentimento che sfruttano i jihadisti in cerca di nuove reclute». La bravura del’Isis, spiega il professore, è quella di «entrare in contatto con persone che si sentono perdute, sole. Che vedono una società che li respinge». Per questo motivo gli ambienti dell’hip hop, cioè quelli della controcultura, sono i più promettenti per chi cerca nuovi adepti. Il jihad promette di risolvere i loro problemi, li ammalia con azioni spettacolari e sanguinose, fa presa con il sogno di un riscatto (sociale, ma anche solo individuale) e li fa sentire all’interno di un mondo in cui la loro presenza non è solo accettata, ma gradita. Trovano nuovi amici, in sostanza. Se ci si pensa, è l’unica ragione possibile. Andare in un Paese arido a uccidere persone che non si conoscono negli interessi di altre persone che non si conoscono sembra un metodo di autoaffermazione e di protesta molto insolito. Con ogni probabilità, anche fallimentare. Ma l’illusione funziona.

La seconda vita di Emino

Dopo la vacanza in Turchia il rapper comincia a disinteressarsi al processo. «Non voleva più sentirne parlare», dice il suo avvocato Me Mrabet. «Disprezzava la giustizia, se ne fregava». Solo dopo «ho capito che quell’atteggiamento dipendeva dalla sua nuova visione salafista della società moderna, che viene rifiutata in toto, insieme alle sue istituzioni». Cosa è successo non è chiaro. Emino smette di fare musica, si fa crescere la barba e indossa il Kamis, una tunica pakistano-afgana molto diffusa tra gli estremisti. Comincia a pregare molto. Il suo freestyle, il cappello ushanka, le belle donne e le belle macchine scompaiono. Poi, nel febbraio 2015, arriva la notizia della suo giuramento di fedeltà al califfo e la fuga in Iraq.

Crisi mistica? Conversione sulla via di Damasco? Emino, va ricordato, non è San Paolo. Non sembra nemmeno un caso di “desiderio di sottomissione”, come penserebbe chi ha letto Houellebecq. Il Daily Mail è feroce: è un rapper fallito, la sua scelta è dettata dalla frustrazione del mediocre e dalla voglia di rivincita fomentata dall’Isis. Il suo avvocato, che lo conosce meglio, ha un’altra spiegazione: «È tutta colpa della repressione della polizia». In molti, sostiene, «credono che questo Paese distrugga la speranza dei giovani». Si cerca una fuga «nella religione, o andando all’estero. Sono tanti artisti, anche loro perseguitati e anche loro “figli della Rivoluzione”, che adesso vivono in Francia».

Le parole dell’avvocato dicono una cosa molto seria: la Tunisia non ha ancora raggiunto, nonostante i ripetuti trionfalismi, la “democrazia”, con tutto ciò che una espressione del genere possa significare. I suoi giovani e i suoi artisti, bravi o meno che siano, sono in difficoltà. È in questa situazione, se dobbiamo dare retta al professor Neumann, che ha agito l’odio anti-sistema presente, in una certa misura, nella vita di Emino (un po’ di maniera e un po’ indirizzato a Ben Alì). Si è concretizzato nel rifiuto delle istituzioni, ha offuscato le soddisfazioni del successo e della celebrità e lo ha spinto a scelte estreme. Nessun dubbio, insomma. Tranne uno: perché scegliere, tra tutte le possibilità elencate da Me Mrabet, proprio l’estremismo islamico? Non si saprà mai. E forse, è proprio questa ignoranza la vera forza dell’Isis.

Tutte le immagini di Emino (prima maniera) sono tratte da qui. Quelle di Emino (seconda maniera) da qui.

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