Rubrica Scienza&SaluteE se quello che sentiamo non fosse reale?

E se quello che sentiamo non fosse reale?

Che sia tutto relativo lo sappiamo, ma forse non abbiamo mai pensato che anche un suono cambia a seconda di chi lo ascolta. Certo le grandezze che determinano i suoni sono oggettive e possono essere rilavate con strumenti appositi come microfoni, analizzatori di spettro e così via, ma come poi noi percepiamo queste grandezze è tutto un altro discorso. Prima di riconoscere il suono infatti, questo segnale viene filtrato dal nostro complesso sistema uditivo che ad ogni passaggio modifica leggermente il messaggio, proprio come un telefono senza fili. Così quando alla fine dei vari passaggi il cervello interpreta il segnale che gli è stato inviato e lo trasforma in un suono, può succedere che questo sia diverso da quello percepito dal nostro vicino. «Quando si ha a che fare con la musica non ci si può fidare completamente di quello che ci dicono i sensi, cioè le orecchie, e nemmeno di quello che si misura con gli strumenti: per completare l’informazione sono necessari entrambi» spiega a Linkiesta Carlo Andrea Rozzi, fisico, musicista  e ricercatore presso il Centro S3 dell’Istituto Nanoscienze del CNR, che da diverso tempo studia l’interazione tra fisica e musica. «Bisogna essere coscienti che a ogni passaggio di questa catena il suono oggettivo subisce una trasformazione e diventa un’altra grandezza un’altra quantità».

Come esistono illusioni ottiche esistono anche illusioni sonore che possono essere percepite in maniera differente a seconda dell’ascoltatore, della sua cultura, lingua e così via. Un esempio è il “paradosso del tritono”, in cui si sentono quattro coppie di note  e viene chiesto di capire se la prima sia più alta o bassa della seconda. Generalmente il campione di ascoltatori nel dare la risposta di divide in due parti in disaccordo. Non esiste in realtà una risposta giusta o sbagliata, «ogni nota è composta da diversi toni generati dal computer, separati da un’ottava, quindi è impossibile dire se quello che segue è al di sopra o al di sotto della scala musicale» spiega David Robson in un articolo pubblicato dalla Bbc. «Il nostro cervello odia essere incerto, e deve sempre trovare un risposta. Secondo le ricerche di Diana Deutsch della University of California di San Diego, questa risposta probabilmente dipende dal nostro accento o dalla lingua: i californiani per esempio risponderanno all’opposto rispetto agli inglesi».

 Un altro esempio è la scala di Shepard, per cui molte persone sentono un suono in continua discesa mentre in realtà si tratta di un insieme di cicli per cui le armoniche più acute vengono reintrodotte gradualmente, mentre quelle più gravi svaniscono gradualmente. «Questi effetti vengono usati anche in musica sotto forma di progressioni modulanti o mediante altri espedienti» scrive Rozzi sul sito “Fisica, onde e musica”. «Nella parte finale del brano Echoes dei Pink Floyd, per esempio, un glissando di coro maschile è stato tagliato ad anello, e mixato in modo da dare l’illusione di una salita continua, che emerge dalla dissolvenza di una lunga ripetizione guidata dalla chitarra elettrica. L’album A day at the races dei Queen invece si apre e si chiude circolarmente con piccolo trio strumentale in cui si sente una scala di Shepard eseguita per mezzo di chitarre elettriche».

Queste illusioni sono studiate e inventate da chi si occupa di psicoacustica per capire come il suono fisico viene percepito. Sono utilizzate per capire come funziona il sistema uditivo, quali sono i meccanismi che permettono di associare alle grandezze oggettive del suono quelle soggettive. «Tutti i nostri sistemi sensoriali possono essere tratti in inganno – precisa Rozzi – perché  quando ricevono un segnale ambiguo, e lo passano così al cervello, questo non è contento e cerca di dare un senso al segnale, di interpretarlo. Questi campioni sono stati creati per studiare esattamente le caratteristiche del sistema percettivo, per capire come trasforma i segnali. Questi segnali sono somministrati, in condizioni controllate, a un campione di persone e vedo che risposte mi danno, come li interpretano, e così via. Quello che cerco di fare è capire come sono fatti questi segnali e svelare qual è il meccanismo che fa scattare l’ambiguità».

Esistono poi illusioni più complicate che richiedono l’interpretazione di parole, o combinazioni molto rapide che non sono comprensibili. Le persone tenderanno perciò a interpretarle in maniera differente, soprattutto a seconda della cultura e della lingua: un italiano sentirà parole italiane un anglofono in inglese e così via. Un esempio è “l’illusione della parola fantasma”: per alcuni potrebbe sembrare un che ripeta “no way” ma altre persone come riporta l’articolo della Bbc, hanno sentito “window, welcome, love me, run away, no brain, rainbow, raincoat, bueno, nombre, when oh when, mango, window pane, Broadway, Reno, melting, or Rogaine” e forse un italiano potrebbe sentire “dove”. «Questo dimostra come le nostre attese plasmino la nostra percezione delle cose» continua Deutsch. «Ci aspettiamo di sentire determinate parole, e così la nostra mente trasforma un informazione ambigua in qualcosa di riconoscibile».

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