L’editoria italiana è come un tessuto a maglie strette completamente imbevuto di precariato fluido, che piano piano qualche anno fa ha cominciato a gocciolare fuori dal sistema e a rendersi sempre più riconoscibile a prima vista anche a chi non ha niente a che vedere con il mercato libraio. La parola “freelance” è usata nell’editoria più di quanto in qualsiasi altro settore: ci sono ufficio stampa freelance, redattori freelance, consulenti (che sono freelance per definizione) e naturalmente traduttori freelance. Qualche giorno fa, in nome di un’insolvenza nei confronti della moglie Katie Kitamura (autrice di Knock Out, uscito nel 2014 per la traduzione di Vincenzo Latronico), lo scrittore britannico Hari Kunzru ha posto pubblicamente una domanda all’editore e fondatore di Isbn Massimo Coppola — già personalità televisiva, giudice di Masterpiece e recentemente nominato direttore di Rolling Stone: «Perché non paghi gli autori, stronzo?». La risposta non è arrivata e Kunzru ha continuato a fare domande, ogni giorno, finché Coppola non si è espresso con sdegno nei confronti del linguaggio volgare dell’autore. Kunzru si è scusato e ha ripreso a fare la stessa domanda, mentre piano piano attorno a lui si raccoglievano diversi traduttori, ognuno con la propria storia di lavori non pagati o pagati solo in parte. Coppola ha annunciato che avrebbe discusso direttamente con Kitamura e, — come Kunzru ha poi reso noto sempre tramite Twitter e mi ha confermato di persona — lo ha fatto. Sostanzialmente per allargare le braccia e dichiarare il fallimento di Isbn (non ancora in via ufficiale). Quindi: niente arretrati per nessuno.
La storia degli ultimi giorni l’ha raccontata bene Paolo Armelli su Wired, mentre quella della casa editrice è sotto il naso di tutti da più tempo. Isbn è entrata e uscita da alcune difficoltà economiche, ha perso diversi collaboratori per strada, ha cambiato diverse sedi e quest’anno, per la prima volta, non sarà presente al Salone del Libro di Torino. Malgrado tutto ha continuato a pubblicare, in nome di uno stoicismo non richiesto e certamente più dannoso che eroico. Non è una vicenda nuova e nemmeno mai sentita. È triste, ma fa parte della ruvida realtà in cui è immerso il mercato editoriale. Forse è bene togliere per un momento il mirino dalla testa di Coppola, di Isbn e delle altre case editrici nominate — ne sono saltate fuori diverse, nel corso dei botta e risposta sui social network — per osservare il fenomeno nella sua interezza.
«I traduttori hanno cominciato a scrivermi e a raccontarmi le loro storie. Alcuni hanno insoluti da anni, altri sono stati pagati solo per una parte»
Una volta Gary Shteyngart mi ha detto: «Se domani qualcuno se ne viene fuori con la teoria che cavalcare una giraffa nudo per Manhattan fa vendere libri, stai sicuro che vedrai centinaia di scrittori nudi a dorso di una giraffa. La stessa cosa vale per Twitter: ti dicono che funziona? E tu ti ci butti». Quella di Kunzru contro Isbn è una faccenda che è iniziata su Twitter e che sospetto che su Twitter sia destinata a spegnersi. I social network forniscono un terreno estremamente fertile per le rivolte di settore e garantiscono quel minimo di immediatezza e distacco tali da dare contemporaneamente l’illusione di non sporcarsi troppo le mani e di essere sempre dalla parte della ragione. Ma difficilmente quello che comincia su Twitter ha un riscontro nella realtà. Attorno a quella di Kunzru in questo momento gravitano decine di voci diverse, si aprono e si chiudono discussioni e si formano gruppi e correnti di pensiero. Quasi niente esce dai centoquaranta caratteri e in pochi hanno deciso di scriverne. Così, per chi è nel social network l’impressione è quella di trovarsi di fronte all’inizio di un cambiamento tanto epocale quanto auspicato — quello in cui i traduttori fanno fronte comune contro lo sfruttamento del loro mestiere e reclamano finalmente ciò che meritano, in nome di tutti i freelance dell’editoria —, mentre per chi ne è fuori questa storia, semplicemente, non esiste.
Ho incontrato Kunzru in un caffè argentino di Brooklyn: «I traduttori hanno cominciato a scrivermi e a raccontarmi le loro storie. Alcuni hanno insoluti da anni, altri sono stati pagati solo per una parte e non avevano idea di come se la passasse l’editore, finché io non ho sollevato la questione. Il fatto è che io ero arrabbiato e volevo prendermela con chi non stava pagando mia moglie, Twitter mi è sembrato il mezzo ideale. Non sapevo chi fosse Coppola prima di un paio di giorni fa e quando l’ho scoperto, dato che si tratta di una personalità pubblica e che ha un profilo pubblico, ho pensato: “Bene, mi rivolgerò a lui direttamente”. Quello che non mi aspettavo era di trovare tante persone in questa condizione. Forse la mia protesta pubblica servirà a qualcosa». È strano vedere la spontaneità con cui le persone vittime della stessa ingiustizia imbracciano la protesta. Tanto più strano è rendersi conto di quanto questa protesta aspettasse solo di un pretesto per essere resa pubblica. Però non sembra che un nuovo sindacato dei traduttori sia prossimo a nascere spontaneamente. «Molti di loro mi dicono di aver intrapreso azioni legali e di aspettare la risoluzione», continua Kunzru scuotendo la testa. «Cosa dovrebbero fare?». Intraprendere azioni legali e aspettare la risoluzione, giusto. Il fatto è che molti non hanno tempo di aspettare e preferiscono fiondarsi nel prossimo lavoro quasi sicuro, piuttosto che in una causa quasi del tutto persa.
Che sia stato un autore straniero a innescare la miccia non è cosa da sottovalutare, solitamente funziona come pretesto per un richiamo mediatico tale da trasportare la questione al di fuori dell’irrealtà tangibile di Internet. «Sarei curioso di sapere come la pensano Douglas Coupland o Ben Brooks. Sarebbe interessante vederli intervenire in difesa dei loro traduttori», dice Kunzru. Se non altro aggiungerebbe peso alla parte debole e permetterebbe alla marea di farsi largo attraverso l’allentamento delle maglie provocato da Kunzru e allargato man mano dalle varie voci, nella speranza che finalmente si apra uno squarcio abbastanza largo da lasciar passare tutto assieme.
Che sia stato un autore straniero a innescare la miccia non è cosa da sottovalutare
La rabbia di Kunzru ha certamente scoperchiato un vaso di Pandora nemmeno troppo piccolo, solo per far luce su una questione non sufficientemente illuminata, ma tristemente nota. L’amplificatore dei social mette sotto i riflettori qualcosa che si poteva tranquillamente presagire: i professionisti della cultura spesso e volentieri si trovano in condizione di non essere retribuiti a sufficienza per il loro mestiere, o di non essere retribuiti affatto. Certo, non sempre è colpa dell’egoismo degli editori, che troppo spesso si sono trovati con le spalle al muro — lo stesso Coppola, nel corso di uno scambio di email con gli agenti di Kitamura, si è definito “vittima degli eventi”. La crisi ha svuotato prima le librerie e poi le casse, ci si aspetterebbe che svuotasse anche gli scaffali, prima o poi. Sicuramente negli anni si è sviluppato un vortice di precariato e servizi a richiesta che ha costretto tutti, a partire dai titolari delle case editrici fino ad arrivare ai librai, a ridefinire le proprie certezze e rivedere le proprie speranze per il futuro. Quasi ogni settimana un nuovo caso di mala-editoria infiamma le bacheche, ma poi finisce per spegnersi come si è acceso: lasciando troppo poco fumo per essere notato dalla distanza.
«Quello che mi aspetto è che prima o poi gli editori insolventi prendano coraggio e per lo meno presentino delle scuse ai loro creditori, se non hanno più di che pagarli. Sarebbe bastata una comunicazione preventiva da parte di Isbn per evitare tutta questa faccenda», conclude Kunzru sottolineando quanto, al di là dell’evidente problema finanziario, esista un grosso problema di comunicazione, lo stesso che lui ha pensato di esorcizzare via Twitter. Il rischio è che anche questo flame passi e sparisca all’orizzonte, portando con sé i nomi di tutte le persone coinvolte e l’hashtag che ha generato ( #OccupayIsbn). Qualcuno cerca di farsi sentire, ad altri — nel bene e nel male — non resta che continuare ad aspettare.