Taccola«Renzi sbaglia, il capitalismo di relazione non è morto, e nemmeno malato»

«Renzi sbaglia, il capitalismo di relazione non è morto, e nemmeno malato»

«Il capitalismo relazionale? Non è morto e nemmeno malato. Renzi ha torto quando lo sostiene e le ultime nomine sono la prova che il manuale Cencelli è vivo e vegeto». È cominciato con il passaggio ai raggi X delle dichiarazioni di Matteo Renzi in piazza Affari lo scorso 4 maggio l’open talk presso la redazione de Linkiesta dedicato al capitalismo di redazione. Ne hanno parlato Franco Moscetti, amministratore delegato e direttore generale di Amplifon, e Susanna Stefani, fondatrice e vicepresidente di Governance Consulting, con Antonio Belloni, responsabile sviluppo de Linkiesta a moderare. 

«In Italia il capitalismo di relazione ha prodotto alcuni effetti decisamente negativi: è il momento di mettere la parola fine a un sistema basato più sulle relazioni che sulla trasparenza e sul rapporto con il mondo che sta fuori e chiede più dinamismo e trasparenza», aveva detto il premier alla comunità finanziaria. «Noi stiamo facendo la nostra parte ma non tocca solo a noi – aveva continuato -. Il sistema del capitalismo di relazione è morto e se non muore, muore l’Italia: la politica oggi è fuori da questo gioco, cambia passo. L’impresa ci dia una mano a cambiare questo sistema». 

Susanna Stefani: «La dichiarazione di Renzi non è un fatto ma un auspicio. Nelle sue ultime nomine ha seguito un manuale di fiducia: il 70% delle persone scelte sono toscani»

Ma proprio il cambio di passo della politica non convince Susanna Stefani, che di mestiere seleziona, come consulente, i consiglieri di amministrazione delle principali aziende italiane. «La dichiarazione di Renzi non è un fatto ma un auspicio – commenta -. Speriamo che le sue nomine seguino questo auspicio. Nelle sue ultime nomine ha seguito un manuale di fiducia: il 70% delle persone scelte sono toscani, dall’Agenzia delle Entrate in poi. Il restante erano persone che si sono viste alle ultime Leopolde. Nell’affrontare un Paese ostile, un partito diviso e una sfida enorme di cambiamento forse ci poteva stare».

L’Italia dei club e l’occasione dei manager nei cda

Se questa è la premessa, Moscetti aggiunge qualche precisazione. «Il capitalismo relazionale non è del tutto negativo – spiega -. Se uno si fida, perché non dovrebbe prendere in considerazione una persona, solo perché la conosce? Noi siamo andati a cercare per il cda (di Amplifon, ndr) degli indipendenti come Luca Garavoglia (presidente di Campari, ndr), Andrea Guerra (ex ad di Luxottica, attuale consigliere di Renzi, in arrivo a Eataly come presidente operativo, ndr), Giovanni Tamburi (fondatore del fondo di investimento Tip), perché hanno fatto nelle loro aziende quel che io vorrei fare con la mia azienda».

Franco Moscetti: «Il capitalismo relazionale da cambiare è quello del club. Io sono uscito da Confindustria perché alla fine si anteponeva l’interesse dei club a quello del Paese»

Né si può dire che siamo rimasti ai tempi della “foresta pietrificata” del capitalismo italiano. «Il capitalismo relazionale da cambiare è quello del club – dice Moscetti -. Quello alla Cuccia (Enrico, storico direttore generale di Mediobanca, ndr), per intenderci. Cuccia diceva che le azioni si pesano, non si contano, ma oggi non è più così. Oggi il sistema internazionale le azioni le conta. La globalizzazione ci ha riguardato tutti, l’impatto di Internet pure». Tra i club ci sono le associazioni degli industriali. « Io sono uscito da Confindustria due anni prima di Marchionne – continua l’ad di Amplifon -, perché alla fine si anteponeva l’interesse dei club a quello del Paese. Perché abbiamo un aeroporto ogni 50 chilometri, perché abbiamo una fiera ogni 50 chilometri? Alla fine, dietro ci sono gli interessi delle associazioni industriali locali». Nel ragionamento di Moscetti non c’è spazio per la nostalgia per il passato: «La mia generazione di classe dirigente ha fallito e io mi sento parte integrante di quel fallimento. La politica è la risultante di quel fallimento».

Stefani: «Montezemolo è l’uomo simbolo dell’Italia dei club»

Susanna Stefani vede come uomo simbolo dell’Italia dei club «Montezemolo (Luca Cordero, ex presidente Ferrari e Confindustria, attuale presidente di Alitalia, ndr)» ma invita a non demonizzare il capitalismo di relazione tout court: «Se si conosce una persona, la si stima, ci si fida, è una forma intelligente portare in cda altri imprenditori di successo, una mossa che si fa anche in diversi Paesi anglosassoni».

Le famiglie nei cda: padroni o azionisti che lasciano spazio

Anche sul capitalismo familiare è il caso di fare delle precisazioni. «Guardate i dividendi che hanno dato le prime trenta grandi aziende familiari italiane – spiega la vicepresidente di Governance Consulting – . I risultati di questa tornata, nonostante la crisi, sono stati eccezionali. Aziende manageriali non hanno avuto risultati di questa natura». Il punto, aggiunge Moscetti, è che «il problema non è la famiglia, ma è la cultura imprenditoriale della famiglia. Anche in Francia o Germania il capitalismo relazionale è vivo e non è che ci siano aziende orfanelle. La famiglia Pinault non ha impedito all’azienda di andare in Borsa, di aprirsi e crescere, cambiare. La storia degli elettrodomestici in Italia è finita tutta all’estero a causa dei conflitti familiari». Questo anche perché, «ci sono padroni che non hanno capito che essere azionista di maggioranza è diverso. Ai figli e ai parenti non si insegna a essere azionisti, a partecipare in azienda, ma a presidiare uno spazio». 

Moscetti: «La storia degli elettrodomestici in Italia è finita tutta all’estero a causa dei conflitti familiari»

Una soluzione, aggiunge Susanna Stefani, potrebbe essere quella di esportare alle aziende familiari il sistema duale, con i rappresentanti della famiglia nel consiglio di sorveglianza e i consiglieri con esperienza manageriale nel consiglio di gestione. Il modello dualistico, introdotto dalla riforma Vietti del 2011, è stato stato usato finora soprattutto nelle banche, e non sempre in modo corretto. «È stato usato all’inizio come un modo per far proliferare cariche – commenta Stefani -. Se fatto male non solo non porta benefici ma è un aggravio di tempo». 

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L’aria fresca delle quote rosa

Un’altra riforma ha portato aria fresca nelle aziende, è stata la legge Golfo-Mosca sulle quote rosa. «Quando è stata approvata – aggiunge la vicepresidente di Governance Consulting -, le aziende hanno assunto il tema della diversity per legge. È finita, o quasi, l’epoca dei club, nei cda sono entrati i giovani, sono entrate figure che nessuno conosceva. In parte è finita l’epoca di quelli che stavano in sette, otto, dieci cda di società quotate. Non è il mondo perfetto, ma è certamente un mondo che si è messo in moto. Diverso è invece il discorso sulle partecipate pubbliche. Lì il club è clientelare, elettorale». 

Stefani: «Con la legge Golfo-Mosca è finita, o quasi, l’epoca dei club, nei cda sono entrati i giovani, sono entrate figure che nessuno conosceva»

Per Moscetti, però, anche nel pubblico «passi avanti sono stati fatti, è innegabile. Francesco Caio alle Poste è un amministratore delegato che ha un curriculum di tutto rispetto. Lo stesso vale per Claudio Descalzi all’Eni e per l’ad di Enel Francesco Starace e la presidente Patrizia Grieco. Sono tutte persone di assoluto livello, strada ne è stata fatta. Non bisogna iscriversi al partito del benaltrismo: se si parte da un livello basso, da zero a 100 ci possono essere delle tappe intermedie soddisfacenti».

Anche secondo Susanna Stefani, «in questa tornata di rinnovi c’è stata una consistente crescita di diversity, in grado di sviluppare un pensiero strategico per crescere nel mondo. Ci sono state più persone con esperienze internazionali ad esempio». Che il quadro sia cambiato lo conferma l’esperienza di Moscetti: «Io dirigo un azienda con 10.000 persone in 22 Paesi – spiega l’ad di Amplifon – e quando sono arrivato non c’era nemmeno una donna dirigente. Nell’ultimo anno i quattro dirigenti esteri che ho nominato sono quattro donne. E io sto preparando la mia uscita dall’azienda, non è un mistero. Noi non dobbiamo solo guidare bene la nostra azienda, ma anche guidarla in modo tale che non ci siano traumi».

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Gli stranieri e l’occasione persa di Della Valle

Moscetti: «Mi piacerebbe che gli stranieri si comprassero un prato e ci costruissero una fabbrica. Altrimenti è un impoverimento»

L’altra spallata al sistema statico dei decenni passati è arrivata dall’arrivo sempre più massiccio di investitori stranieri. Che per Moscetti non vanno mitizzate. «Bisogna vedere come arrivano gli investimenti esteri, che sono sicuramente benvenuti. Mi piacerebbe che si comprassero un prato e ci costruissero una fabbrica. Se invece comprano le nostre eccellenze e portano il quartier generale in Cina, questo per noi è un impoverimento». Non solo per i dipendenti che rischiano il posto ma anche per i manager: «Se si è anche ad di una controllata, che cosa si inventa? Si deve sviluppare il business, ma dal punto di vista strategico se un manager di una controllata si inventa qualche cosa diventa un rischio, uno da eliminare fisicamente, perché mette a rischio un’organizzazione. Al di là della valorizzazione delle competenze locali, bisogna dire che la strategia di Bulgari ora si fa a Parigi, come quella di Parmalat. E così come per la Whirlpool, che si decide negli Usa». Un commento che ha preceduto di poche ore la svolta dell’impresa di elettrodomestici, che a sorpresa, e probabilmente su input americano, ha annunciato di aver portato gli esuberi ex Indesit in Italia a 2.060, dai 900 inizialmente previsti dal piano Italia, già saliti a 1.350. 

Moscetti: «Quello che mi fa arrabbiare più di tutti è Diego Della Valle. Invece di inseguire banche e giornali, avrebbe potuto creare una Lvmh italiana»

Per la classe dirigente ci sono state anche tante occasioni perse, che avrebbero potuto evitare lo shopping di marchi avvenuto in questi anni. «Quello che mi fa arrabbiare più di tutti è Diego Della Valle – dice Moscetti – . È intelligente, capace, simpatico, mi fa arrabbiare perché non fa quello che potrebbe fare. Ha investito nell’editoria insegnando ai giornalisti come si fa un giornale e nelle banche, insegnando a fare i banchieri. Perché non ha creato una Lvmh italiana? È il problema dell’Italia: tutti cerchiamo di fare male il mestiere degli altri piuttosto che bene il suo mestiere». 

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