Dopo lo scontro con i sindacati, quello con gli insegnanti. Una categoria alla volta, il segretario del Partito Democratico Matteo Renzi volta le spalle all’elettorato storico della sinistra. È un preciso disegno politico, in buona parte. Non privo di una preoccupante sottovalutazione dei rischi. Intanto la strategia mediatica del presidente del Consiglio descrive perfettamente la mutazione genetica del suo Pd. Un partito molto diverso da quello dei predecessori, e non solo per le percentuali di voto raccolte alle urne.
Con Matteo Renzi il consenso democrat cambia natura, il centrosinistra si apre alle contaminazioni. È una questione logica, prima che politica. Se il Pd è passato dal 25 al 40 per cento – questa la clamorosa affermazione alle ultime Europee – è evidente che si sono avvicinati al progetto del segretario nuovi elettori. In gran parte provenienti dal centrodestra. E questo lo raccontano bene i sondaggisti, che da tempo descrivono la trasformazione di un partito in crescita tra imprenditori, dirigenti e realtà storicamente più vicine ad altre offerte politiche. Elettori con diversi valori e aspettative. Coinvolti non dall’ideologia, ma dalla promessa di cambiamento. Elettori che in un passato non così remoto hanno votato per Silvio Berlusconi e ora, convinti dal progetto renziano, si aggiungono alla base elettorale democratica.
Nel giro di pochi anni Renzi sogna di guidare un grande partito popolare che non può prescindere dall’uscita dal partito della minoranza di sinistra
L’obiettivo del segretario dem sembra chiaro. Nel giro di pochi anni Renzi sogna di guidare un grande partito popolare, capace di inglobare quelle fette di elettorato di centro e centrodestra ormai orfane di un leader. È il Partito della Nazione di cui tanto si parla. Una realtà in grado di intercettare un consenso trasversale attorno alla voglia di cambiamento e novità, i principi cardine della “rottamazione” renziana. Un progetto già avviato, fortemente legato alla figura del leader, che non può prescindere dall’uscita dal partito della minoranza di sinistra, componente inconciliabile con il Partito della Nazione.
La contrapposizione con categorie storicamente vicine al Pd si spiega anche così. A partire dallo scontro con i sindacati, reso più acceso dall’abolizione dell’articolo 18. Una rottura strategica, persino intelligente. Numeri alla mano, dare battaglia aperta a quel mondo si è rivelata un’operazione senza troppi rischi. Se fino a pochi anni fa il sindacato poteva contare sulla fiducia del 35 per cento degli italiani, oggi quel margine si è ridotto fino al 10 per cento. Un passaggio che ha rappresentato il primo grande messaggio politico del premier Renzi, pronto a conquistare anche i voti più lontani dall’universo di riferimento del centrosinistra.
Il mondo della scuola ha sempre rappresentato un importante bacino di consensi per il centrosinistra. Il confronto anche aspro di queste settimane può aprire definitivamente una nuova fase
Molto diverso il confronto con gli insegnanti. La rottura di Renzi con il mondo della scuola è estremamente più significativa. Soprattutto perché rischia di configurare un primo errore mediatico del premier. Stavolta il piglio duro e decisionista del premier non sembra aver generato il consenso atteso. Trattare gli insegnanti come i sindacati non è stata la mossa giusta. Certo, in attesa dell’approvazione della riforma è difficile non apprezzare lo strategico tempismo (siamo a poche settimane dalla fine dell’anno scolastico: alzi la mano chi teme le barricate in piazza dei docenti durante i mesi estivi). Eppure esiste il rischio di una sottovalutazione, di un impatto negativo non considerato. Il mondo della scuola ha sempre rappresentato un importante bacino di consensi per il centrosinistra. Anche nei momenti più difficili, persino durante il ventennio berlusconiano. Il confronto anche aspro di queste settimane può aprire definitivamente una nuova fase.
Qualcuno ha già osservato la mutazione del renzismo. Il presidente del Consiglio è sempre stato un personaggio politico inclusivo: la rottamazione ha intercettato il desiderio di cambiamento di una larga parte dell’elettorato italiano. Un’aspettativa trasversale, proveniente da centrodestra e centrosinistra. Ora la sua fisionomia politica sta cambiando. Da leader ammiccante a tutti gli elettori, a politico divisivo. Da una parte resta chi ne è affascinato, fortemente. Dall’altra chi lo detesta. Un po’ come in passato è stato per Silvio Berlusconi.
La sua fisionomia politica di Renzi sta cambiando. Da leader ammiccante a tutti gli elettori, a politico divisivo
L’ostentata sicurezza e quell’antipatica sensazione di irrisione dell’avversario non aiutano. Ne sa qualcosa Pippo Civati, uscito in polemica dal partito, così come il vecchio gruppo dirigente accusato apertamente di nostalgia per la sconfitta. Senza dimenticare la reazione alle recenti critiche degli ex premier Romano Prodi ed Enrico Letta, che forse meritavano una riflessione interna più approfondita prima di essere liquidate con quell’umiliante: «Parlano perché hanno due libri in uscita». Il futuro è un partito vincente, sicuramente. Anche perché al momento privo di qualsiasi avversario. Ma è un progetto molto lontano da quello che forse sognavano i padri fondatori del Partito democratico. All’orizzonte si intravede un partito dell’uomo solo al comando, indissolubilmente legato alla figura del leader. Un partito aspirapolvere pronto, anche grazie al nuovo impianto dell’Italicum, a imbarcare chiunque con l’obiettivo di vincere. Un po’ quello che sta emblematicamente accadendo in Campania a un mese dalle Regionali.