La prima legge italiana che riordina l’assetto dei manicomi, fino a quel momento non regolati, è la Legge Giolitti del 1904. Qui nasce la forma del manicomio così com’è rimasto per gran parte degli anni successivi. Viene ufficializzata la funzione pubblica della psichiatria – nascono gli ospedali politici giudiziari -, si stabiliscono le condizioni per l’ammissione e la dimissione dei pazienti. Viene definito il potere del direttore del manicomio e, soprattutto, si sancisce il legame tra malattia mentale e pericolosità. È un passaggio fondamentale: l’introduzione dell’obbligo del ricovero – che diventa coatto – si rivolge ai soggetti considerati pericolosi. L’intercessione della famiglia per respingere un ricovero di questo tipo non veniva considerata. Creati in vecchi conventi, e non in sezioni psichiatriche annesse agli ospedali, i manicomi toglievano diritti civili e politici a chi veniva internato. Elettroshock e lobotomia le pratiche di cura più diffuse, introdotte in quel periodo.
I manicomi toglievano diritti civili e politici a chi veniva internato. Elettroshock e lobotomia divennero le pratiche di cura più diffuse
Nel 1948 le cose cambiano. Con la Repubblica, (e la promulgazione della Costituzione) la privazione di libertà decretata dalla Legge Giolitti non è più accettabile. C’è una nuova sensibilità in materia, più improntata a uno spirito di pietà e rispetto dei diritti umani. Ma anche la volontà di considerare l’internato non come un detenuto, ma come un paziente. Questi due principi divennero, negli anni ’70, il centro del pensiero di Franco Basaglia, neurologo e psichiatra di Trieste, che portò modifiche fondamentali all’approccio della malattia mentale. Basaglia si impegnò affinché fossero eliminati il completo isolamento, i metodi drastici e l’abuso del soggetto ricoverato. Un’applicazione dei diritti umani anche nell’ambito psichiatrico. Nel 15 maggio 1978 arriva così la Legge 180 – o Legge Basaglia – che porta l’eliminazione dei manicomi dal sistema nazionale italiano e all’introduzione dei trattamenti volontari per malattia mentale (limitandone l’obbligatorietà a poche situazioni).
«I tempi sono cambiati. E con loro anche il modo in cui il potere viene vissuto all’interno della società, e il suo ruolo nel controllo delle emozioni», spiega Francesco Comelli, docente dell’università di Urbino e psichiatra specializzato in disturbi della contemporaneità. Il passaggio dalla legge Giolitti alla legge Basaglia è, allora, il risultato di un’evoluzione generale della coscienza della società, anche nei confronti del potere. «È possibile che si sia passati da una visione dell’autorità come inavvicinabile e automaticamente assertiva e violenta, come era in epoca fascista, a una nuova lettura in cui i vertici sono messi in discussione». Questo si è riflesso anche nella concezione del malato e del paziente psichiatrico. I movimenti degli anni ’70-’80 mirarono a sopprimere l’abitudine di vedere il malato come un caso da isolare più che da curare. Senza dimenticare gli ospedali psichiatrici giudiziari, diffusi durante il regime fascista.
Primo caso: il periodo fascista
Grazie agli “archivi dell’emarginazione” – archivi della polizia e di istituti psichiatrici – si sono potute stabilire alcune stime degli internamenti avvenuti tra il 1922 e il 1943. Il primo dato che si coglie è che fino al 1926, a causa dei conflitti nati in seguito all’omicidio Matteotti e agli attentati contro Benito Mussolini, l’internamento non era ancora una pratica diffusa come strumento di repressione. Il fascismo si servì del ricovero coatto come arma politica soprattutto dal 1927 in poi, quando il controllo da parte del regime divenne più forte.
Si agiva attraverso il ricovero coatto. Oppure un’altra strada era di perseguitare psicologicamente il soggetto pericoloso fino a fargli assumere atteggiamenti paranoici reali
Il ricovero coatto veniva applicato a larga parte degli oppositori politici, e con modalità semplicistiche. La condanna non richiedeva una Commissione provinciale, era sufficiente una segnalazione o un’ordinanza di pubblica sicurezza e un certificato medico. Il rifiuto a uniformarsi condannava non solo gli oppositori, ma anche alcolizzati, prostitute e vagabondi. La “classe inferiore” che minava l’equilibrio ricercato dal regime.
In particolare, gli antifascisti che diventavano mira della repressione erano persone che già in precedenza avevano compiuto delitti. Così era più facile (e convincente) additarli come pazzi. Un’altra strada era quella di perseguitare psicologicamente il soggetto pericoloso fino a fargli assumere atteggiamenti paranoici reali. A quel punto, il ricovero coatto diventava l’unica soluzione praticabile. È durante il periodo fascista che nasce anche l’usanza da parte dei politici schedati di servirsi dell’infermità mentale come scappatoia contro una pena più gravosa.
MESSAGGIO PROMOZIONALE
La storia di Ida Dalser
Il manicomio veniva utilizzato anche per sbarazzarsi dei soggetti scomodi, non solo dal punto di vista politico. Emblematico è il caso di Ida Dalser, prima moglie (non ufficiale) di Benito Mussolini dal 1914 al 1915. Dopo aver sostenuto non solo moralmente, ma anche economicamente il compagno, Ida Dalser si vide sostituita da Rachele Guidi, nuova moglie del duce. La reazione “rumorosa” della Dalser la condannò all’internamento nel 1926, prima nel manicomio di Pergine Valsugana, vicino a Trento. E poi a San Clemente (Venezia), su ordine dello stesso Mussolini. Ida Dalser avrebbe cercato di ottenere aiuti attraverso lettere mai recapitate, poiché intercettate dalle autorità. Morirà il 3 dicembre 1937 a San Clemente dopo aver subito, secondo la prassi, varie torture.
Vittima della stessa sorte sarà anche il figlio di Ida Dalser e Mussolini, Benito Albino Dalser. Nato l’11 novembre 1915, fu prima registrato con il cognome Dalser. Poi, riconosciuto dal padre l’11 gennaio 1916, lo cambiò con quello di Mussolini. Rimase così fino al 1932: tramite decreto reale venne nuovamente cambiato il suo cognome, adottando quello del commissario prefettizio di Trento scelto come tutore, il Sig. Bernardi.
Il regime fascista utilizzò in modo massiccio l’internamento dei numerosi prigionieri e oppositori politici. In più andò a colpire anche chi cercava di sottrarsi alle direttive del regime (ad esempio, fuggendo dalla leva) e cercava di scappare
Benito Albino (ora) Bernardi trascorse la vita sotto la sorveglianza della polizia politica. Da quest’ultima venne richiamato da una spedizione in Cina (dov’era andato dopo essersi arruolato nella Marina Militare) con la falsa notizia della morte della madre. Rientrato in patria venne internato nell’ospedale psichiatrico Mombello di Limbiano, manicomio provinciale di Milano. Morirà qui per consunzione il 26 agosto 1942, senza aver mai più rivisto la madre dall’internamento di lei. Sia della madre sia del figlio non rimangono neanche le tombe. Si pensa che i corpi siano stati gettati in fosse comuni.
La pratica continuerà anche con lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale. Anzi, aumenta. Il regime fascista utilizza in modo massiccio l’internamento di prigionieri e oppositori politici. In più colpisce anche chi cerca di sottrarsi alle direttive del regime (ad esempio, fuggendo dalla leva) e cercava di scappare (in nome della follia morale di chi non era in grado di comprendere le leggi del regime).
Secondo caso: la Russia alle soglie del comunismo
L’utilizzo dei manicomi come arma per reprimere il dissenso, va detto, non è un’esclusiva del regime fascista. Nella carrellata storica, non si può non menzionare la Russia. Uno dei casi più significativi è quello di Marija Aleksandrovna Spiridonova. Sostenitrice e componente del Partito Rivoluzionario Socialista, nel 1906 uccise un ispettore generale di polizia a causa della sua dura repressione degli scioperi agrari. Presa e torturata dalla polizia, fu condannata a 11 anni di lavori forzati in Siberia.
Rilasciata in seguito alla Rivoluzione di Febbraio, partecipò alla Rivoluzione d’Ottobre a fianco dei bolscevichi, ma, nel 1918, fu arrestata dalla Čeka e venne internata per lungo tempo. L’ospedale psichiatrico di Kazan, capitale del Tatarstan, fu il primo dell’URSS in cui avvenivano internamenti a scopi politici. Di 1802 pazienti che morirono tra il 1940 e il 1970, 470 furono internati politici. Solo nella colonia penale n. 5, ramo dell’ospedale psichiatrico di Kazan dal 1956, morirono in 3087.
Tra le diagnosi più frequenti ci sono casi di schizofrenia paranoide, schizofrenia latente e schizofrenia indolente. Da qui potrebbe essere nata l’idea della psichiatria come arma di controllo del dissenso. Gli pisichiatri sovietici G. V. Morozov, D. R. Lunz e A. V. Snezhevsckij furono le tre figure principali che svilupparono questa metodologia. Snezhevsckij, in particolare, propose una teoria importante, in cui la concezione della malattia veniva modificata in modo netto. Il dissenso ideologico diventava il sintomo di una grave disfunzione psicologica.
Il terzo caso: La repressione dei contadini cinesi
L’abuso dell’infermità mentale non è una pratica che risiede esclusivamente nel passato. Ad esempio in Cina – più precisamente da Xintai contea nella provincia dello Shandong – nel 1988 lo sviluppo massiccio dell’industria mineraria provocò dissesti geologici nella regione. I contadini di Xintai videro i loro campi sprofondare. L’impossibilità di coltivare il terreno spinse i proprietari delle miniere a promettere risarcimenti ai contadini colpiti. Cosa che però non avvenne mai, anche se i funzionari del villaggio sostenevano il contrario. Le petizioni di protesta presentate al municipio del paese, neanche a dirlo, furono represse. E costarono l’internamento di 18 persone.
* Studentessa del Liceo Classico Parini di Milano, in stage a Linkiesta