In questi giorni la Turchia si avvicina al voto delle elezioni politiche, che in molti qui da noi dipingono come un bivio storico che pare, però, a senso unico, o quasi. Tutto pare dipendere dalla dimensione della vittoria dell’Akp, il partito del presidente Erdogan, data per certa, che se dovesse aggiudicarsi la maggioranza assoluta del parlamento potrebbe indire un referendum costituzionale e trasformare la Repubblica parlamentare in presidenziale.
Ma non ci sono solo le elezioni politiche, la rete di problematiche a cui deve far fronte di questi tempi la Turchia — e che inquietano l’opinione pubblica occidentale — è molto più ampia, è fitta, e racchiude anche il tema della censura e delle minacce ai giornalisti e ai blogger da parte del governo e quello dell’Isis, che è da mesi alle porte della Turchia e che anche se ha perso il possesso di Kobane, città siriana che sorge a poche centinaia di metri dal confine turco, rappresenta un fronte aperto e molto pericoloso.
Martedì 2 giugno, La grande invasione di Ivrea ha ospitato uno dei più importanti scrittori turchi di questi anni. Lui si chiama Hakan Günday, è nato nel 1976 e abitato in giro per l’Europa per vent’anni, al seguito dei genitori diplomatici, prima di tornare a Istanbul. Ora ha da poco pubblicato in Italia il suo libro A con Zeta (Marcos y Marcos), un romanzo in bilico tra occidente e oriente, uno degli otto che Günday ha pubblicato in Turchia, dove è stato acclamato come una delle voci più interessanti e importanti della sua generazione.
«Per prima cosa non pensare che la Turchia abbia solo due facce», dice ridendo, mentre fuma la prima di una serie di sigarette. «Ne ha molte, molte di più. È un paese molto complesso, che negli ultimi quindici anni ha vissuto un grande cambiamento, sia sociologico che politico».
Che periodo sta attraversando il tuo paese?
Se partiamo dalla società, possiamo dire che la popolazione in questo momento è molto dinamica, soprattutto la nuova generazione di giovani. La Turchia di oggi è un paese in costante cambiamento, che in parte sta provando a liberarsi da quelle che sono vecchie catene che abbiamo intorno al collo da secoli, e che, in generale, sta cercando di trovare la sua nuova identità. Da questo punto di vista si può dire che la Turchia è un paese che sta improvvisando, come nel jazz. Sta cercando la propria voce, la propria identità, una propria nuova realtà possibile. Questo perché per tanti anni le differenti parti della popolazione si sono ignorate tra loro, non comunicavano, quasi non si conoscevano. Ma ora le cose stanno cambiando e tutti vengono in contatto con tutti. È una dinamica molto importante, ma è anche fonte di confronti e attriti anche aspri.
E a livello politico?
A livello politico viviamo l’emergere di quella parte che era stata finora oppressa (quella religiosa) e che ora rivendica la propria identità. Il problema è che si sta spingendo un po’ troppo in là nella sua rivendicazione e tende a volere che tutti la pensino come loro. È pericoloso, perché rischia di sfociare nell’autoritarismo.
«I paesi musulmani nella storia hanno dato due esiti: o una dittatura ultrasecolare o la sharia. In mezzo non c’è nulla, anzi, in realtà c’è una cosa gigantesca che si chiama Democrazia».
Cosa ti aspetti dal futuro?
Non so, è difficile giudicare cose che stanno avvenendo sotto ai tuoi occhi. E non è facile neppure prendere ad esempio altre storie di altri paesi. Sai, quando tenti di confrontare la Turchia con un altro paese del mondo, non lo trovi, perché non esiste. Per questo prima parlavo di improvvisazione, perché la Turchia deve trovare un nuovo modo di essere se stessa, ma senza poter guardare ad altri esempi. Quando guardi ad altri paesi a maggioranza musulmana, nella storia puoi trovare due differenti esiti: o una dittatura ultrasecolare — pensa alla Siria di Assad, per esempio — oppure l’affermazione della sharia. In mezzo non c’è nulla, anzi, in realtà c’è una cosa gigantesca che si chiama Democrazia. Ma per arrivarci ci vuole molto tempo.
«La protesta di Gezi Park è stata una cosa inedita in Turchia: molti giovani scendevano in piazza per la prima volta, sono loro il nostro futuro»
Hai parlato di grossi cambiamenti sociali e politici in corso in Turchia negli ultimi anni. Ci racconti cosa è successo?
La protesta di Gezi Park, ovvero qualcosa a cui noi non avevamo mai assistito prima. È stato un movimento radicalmente nuovo. Per la prima volta non c’erano leader nella protesta. Per la prima volta era composta da giovani, molti dei quali scendevano in piazza per la prima volta. E da ultimo, ha unito tante diverse fazioni e partiti che prima di allora si erano sempre combattuti, ma che lì, in quel parco di Istanbul, erano mano nella mano a difendere il diritto di tutti loro di esistere, di avere libertà di espressione.
«È la prova che una nuova generazione sta emergendo con i propri nuovi strumenti: internet, twitter, facebook, ma anche lo humeur, e altri strumenti di lotta pacifica che in Turchia non si erano mai visti»
Che segni ha lasciato questa protesta nel paese?
Essendo una cosa del tutto nuova, è molto difficile da analizzare. Abbiamo bisogno di tempo, di vedere gli effetti a lungo termine, di metabolizzare quello che è successo. Quello che posso dire è che è stata una inedita e gigantesca protesta per ottenere il diritto alla protesta. Milioni di persone sono scesi in piazza, molti come dicevo per la prima volta. Purtroppo nove persone sono morte, ma resta un fatto, che è la prova che una nuova generazione sta emergendo con i propri nuovi strumenti: Internet, Twitter, Facebook, ma anche lo humeur, e altri strumenti di lotta pacifica che in Turchia non si erano mai visti. Per esempio, a un certo punto, dopo gli scontri con la polizia, quando tutti pensavano che fosse tutto finito e che si sarebbe tornati alla normalità, un ragazzo è sceso in piazza, a Taksim, e semplicemente si è messo in piedi, fermo, senza dire una parola. La polizia non sapeva cosa fare, gli girava attorno, non capiva e non poteva far niente. È stato lì per ore, e poi, piano piano, una dopo l’altra anche altre persone sono arrivate e si sono messe in piedi, ferme, senza parlare, senza alcun atto, men che meno di violenza. È stata una cosa memorabile, che grazie ai social network si è diffusa a macchia d’olio in tutto il paese, con decine, centinaia, forse di migliaia di persone che hanno protestato in quel modo.
«Come te e me, questi ragazzi fanno parte di una generazione speciale: sono il primo risultato della globalizzazione culturale, di internet, i primi della Storia a non avere più bisogno dei confini»
A cosa porterà tutto questo?
Francamente non lo so, è difficile dirlo ora. Possiamo solo dire che è successo, ed è un primo passo, anche perché non si potrà tornare indietro, bisogna che tutta la Turchia ci faccia i conti. La cosa più interessante è che nel giro di dieci anni, quelle centinaia di migliaia di giovani che erano il nucleo della protesta diventeranno adulti, entreranno nel mondo professionale, potranno dire la loro, cambiare la Turchia.
Abbiamo bisogno di loro, della loro energia, delle loro idee. Perché come te e me, tutti questi ragazzi fanno parte di una generazione speciale, sono cittadini del mondo, sono il primo risultato della globalizzazione culturale, di internet, sono i primi della Storia a non avere più così tanta esperienza dei confini e delle differenze di nazionalità.
Uno dei temi che inquieta di più gli europei è la censura. Cosa puoi raccontare a proposito?
La censura, per come l’ho sperimentata io sulla mia pelle, è come un bambino di 5 anni. Va dove c’è più rumore. Per questo motivo oggi come oggi i più attaccati sono i giornalisti e i blogger. Quindici anni fa erano i romanzieri e i poeti, ma oggi non più, ad essere più attaccati dalla censura sono le persone che riescono ad arrivare a milioni di persone tramite internet. È per questo che il governo ora usa il pugno di ferro contro i giornalisti.
«La censura è come un bambino di 5 anni. Va dove c’è più rumore. Per questo motivo oggi come oggi i più attaccati sono i giornalisti e i blogger»
Che esperienza hai avuto della censura?
Io personalmente non ho quasi mai avuto problemi. Anzi, in realtà ne ho avuto uno, con l’esercito, che mi voleva processare perché avevo scritto un romanzo sulla leva, che in Turchia è obbligatoria. Ma alla fine il giudice decise di non proseguire, non c’era di che processarmi. In generale gli scrittori mi sembrano più liberi di qualche anno fa. Ora chi rischia sono i giornalisti, i documentaristi, chi riesce a comunicare a milioni di persone. I libri non arrivano in così tante mani, purtroppo. Chiaramente le cose che ti dico sono tutte basate sulla mia esperienza personale, non bisogna mai dimenticare, quando si parla di censura, che essa è subdola e sottile, e riesce ad agire soprattutto all’ombra.
Cosa può fare la letteratura per cambiare le cose?
Sì, è quello che cerco di fare. Quando ho iniziato a scrivere, quindici anni fa circa, ho capito che scrivere era la cosa migliore per pensare e per capire. Non a caso una delle punizioni che si usano con i bambini è proprio quella di fargli scrivere centinaia di volte la stessa frase. Per arrivare a qualcosa devi andare scavare in profondità nei tuoi pensieri. Quindici anni fa dicevo a me stesso: “scrivi cose che non capisci, e poi prova a capirle scrivendo”. Tutte le storie che cerco di raccontare sono storie che possono dare alla gente l’opportunità di stare lucidi. Io resto lucido scrivendo. Se quel che scrivo può avere successo è questo: permettere ai lettori di essere lucidi e di capire cosa gli succede attorno. Perché se di questi tempi abbiamo un serio problema è proprio quello di abituarsi ai soprusi, alla violenza, alle ingiustizie. Ci stiamo abituando, e questo è il più grande pericolo, perché una mattina ci sveglieremo e saremo fregati, tutto sarà deciso da altri, dal governo, e non sapremo nemmeno perché. Quello che spero di riuscire a fare con i miei libri e le mie storie è registrare i passaggi, i lividi e le impronte che la realtà ci lascia addosso, proprio per scongiurare il fatto che un giorno possiamo svegliarci e non ricordarci nemmeno chi ci ha picchiato.
«La cosa peggiore che può capitare all’Europa è di diventare un museo di idee»
Hai vissuto parecchio in Europa prima di tornare a Istanbul, secondo te che pericoli corre la democrazia in Europa?
La cosa peggiore che può capitare all’Europa è di diventare un museo di idee. Sentirsi soddisfatti di quello che si ha acquisito, di ciò che si è fatto fino a oggi è una cosa giusta, ma se questa soddisfazione ci spinge a sentirci arrivati, a non chiedere che tutto quello che abbiamo guadagnato continui ad esistere. E oggi, per esempio, vuol dire non sapere cosa fare quando decine di migliaia di persone scappano verso l’Europa e chiedono aiuto perché i loro paesi sono in fiamme. E le democrazie europee in questo momento non hanno risposte per loro. E anche gli europei non sanno come comportarsi e pensano: «ma dove diavolo viene tutta questa gente? Noi eravamo felici a casa nostra, che cosa succede ora?»
«La democrazia è un palazzo da costruire ogni giorno, perché sappiamo che verrà demolito ogni notte»
Cosa deve essere la democrazia?
La democrazia deve essere una realtà dinamica, qualcosa in continua evoluzione, una definizione che deve essere scritta ogni giorno, un palazzo che deve essere ricostruito ogni giorno. Non un museo. Perché se lo diventa, se i cittadini pensano di averla diventa come un trofeo, come una di quelle teste di animali esotici che decorano i salotti dei ricchi. Ma non è per niente questo: la democrazia deve essere in costante movimento, se no a un certo punto non dà più risposte ai problemi che la realtà ti pone davanti. È un palazzo da costruire ogni giorno, perché sappiamo che verrà demolito ogni notte.
Cambiando argomento, come vive la Turchia il fatto di avere lo Stato Islamico alle porte di casa?
Prima di tutto, da quando ero bambino il Medio Oriente è sempre lo stesso. È il campo di battaglia di tensioni e odi che esistono da almeno un secolo e, purtroppo, con quello che sta succedendo ora, ho l’impressione che rimarrà così fino al giorno in cui spilleremo l’ultima goccia di petrolio, ovvero secoli. Quando vedi l’emersione di un fenomeno come quello del Daesh, dello Stato Islamico, capisci che non è più un fenomeno locale, non è più il ceceno o il bosniaco che lottano per la loro indipendenza, questo è qualcosa di molto più grosso, e decisamente più terrificante. Quando vedi tutti questi ragazzi che lasciano le loro famiglie e che partono dalla Francia, dall’Inghilterra, dalla Germania, per andare a combattere per delle ragioni che nemmeno conoscono, in un posto che non hanno mai visto dove stanno succedendo atrocità che nemmeno si possono immaginare, be’, quando vedi tutto questo capisci l’esatta dimensione della tragedia. È diventata la terra per combattere, come un campo da gioco. Non fai scorrere sangue a casa tua, ma vai in Medio Oriente e lo fai scorrere lì, massacrando persone che nemmeno conosci.
«La Turchia ha la possibilità di essere da modello per tutto il Medio Oriente. Perché prima o poi uno stato a maggioranza musulmana dovrà diventare una democrazia. Noi possiamo aprire la strada»
Che ruolo dovrà avere la Turchia in questo contesto?
La Turchia in questo scenario può e deve avere un ruolo importante. Deve agire a sangue freddo, perché tutte le battaglie che si stanno combattendo ora in Medio Oriente, a mio parere, sono battaglie plastiche, finte, sono basate su differenze etniche, culturali e religiose, non su cosa mangi la mattina o per quanti soldi riesci a guadagnare a fine mese. Sono conflitti inventati su problemi inventati per far massacrare le mille fazioni e parti sociali che in Medio Oriente vivono da secoli. Per questo la Turchia, se vuol entrare nel gioco, deve stare attenta, rischia di essere risucchiata dalla violenza, che è come il vuoto, quando ci entri in contatto non sai cosa può succedere dopo. La Turchia ha la possibilità di essere da modello per tutto il Medio Oriente. Perché prima o poi uno stato a maggioranza musulmana, come è la Turchia, dovrà diventare una democrazia. Nella storia non è ancora successo, ma la Turchia lo può essere. Non sappiamo quando e come, ma sappiamo che lo può quindi che lo deve essere. Deve dimostrare a tutti questi paesi come si può creare uno stato che sappia tollerare chiunque, che sappia far convivere potere religioso e potere temporale.