Ma quale invasione, gli stranieri che decidono di vivere nel nostro Paese sono sempre meno. Questo almeno è quello che succede in Trentino, un tempo ambita terra di migrazione. A descrivere l’interessante fenomeno sono i dati presentati pochi giorni fa dall’Istituto di statistica della provincia di Trento. Secondo la ricerca, al primo gennaio di quest’anno gli stranieri residenti sul territorio rappresentavano poco più del 9 per cento della popolazione totale. Esattamente 50.104 persone. Ben 729 in meno rispetto all’anno precedente, un calo dell’1,4 per cento.
È il segno di un’inversione di tendenza? Sui giornali locali si è aperto il dibattito. «Se prima i dati sugli stranieri residenti in Trentino, come nel resto d’Italia, ci dicevano che le paure di un’invasione erano infondate, i numeri attuali, riportando una riduzione di tale presenza, ribadiscono che queste ansie sono frutto di una percezione sbagliata del fenomeno migratorio» spiega al Corriere del Trentino Paolo Boccagni, ricercatore dell’università di Trento e curatore del rapporto annuale sull’immigrazione di Cinformi (il centro informativo per l’immigrazione). Il rischio, lamentano alcuni, è che la provincia stia diventando sempre meno attraente per chi cerca lavoro. Una conseguenza tutt’altro che positiva della crisi economica. Peraltro non si tratta neppure di un dato troppo sorprendente. Se il saldo negativo è una novità, la crescita degli stranieri residenti stava rallentando già da qualche anno.
Gli stranieri residenti sul territorio sono 50.104 persone. Ben 729 in meno rispetto all’anno precedente, un calo dell’1,4 per cento
Sul territorio ci si interroga sul fenomeno. Che fine hanno fatto i 3.831 stranieri che si sono trasferiti altrove nel corso del 2014, a cui vanno aggiunti gli oltre mille recentemente cancellati dalle anagrafi, ma andati via già da qualche tempo? Difficile avere un quadro completo. Sicuramente alcuni sono tornati nei paesi d’origine. Lo conferma al Trentino Dan Ion, il presidente di un’associazione legata alla comunità rumena residente in provincia di Trento. «Ad andarsene – così ha spiegato al quotidiano – è stato chi non è riuscito a trovare un lavoro stabile, gli ex dipendenti di aziende che hanno chiuso». Immigrati recenti, per la maggior parte. «In generale hanno lasciato l’Italia i rumeni che sono arrivati cinque-sei anni fa e non sono riusciti a crearsi una situazione stabile».
MESSAGGIO PROMOZIONALE
E poi c’è chi ha lasciato l’Italia per altre destinazioni. Nel caso della comunità musulmana, ad esempio, alcuni potrebbero essersi spostati verso Francia e Inghilterra. Altri ancora hanno deciso di rimanere, dopo aver fatto tornare la famiglia nei paesi d’origine. Ne è convinto l’imam di Trento Aboulkheir Breigheche, anche lui sentito dal Trentino. «Direi che il dato della disoccupazione straniera sia evidente e così in tanti hanno preferito far rientrare la famiglia in patria, mentre gli uomini hanno deciso di condividere gli appartamenti per contenere le spese in attesa di tempi migliori».
Il saldo degli stranieri residenti è un pericoloso indicatore della crisi economica che ha investito alcuni settori, come l’edilizia
Comunque lo si guardi, il dato rappresenta un segnale della crisi. A cui peraltro non è immune neppure il resto del Paese. «Ovviamente questa provincia non è una mosca bianca – conferma Boccagni al Corriere – Questo trend si verifica in tutta Italia. E ci permette di ribadire ancora una volta che le paure di un’invasione sono infondate». Il saldo degli stranieri residenti è un pericoloso indicatore della scomparsa di posti di lavoro. Specie in settori come l’edilizia. Ne è convinto il segretario generale della Cgil Franco Ianeselli: «La diminuzione della presenza di queste persone – le sue parole al Corriere – ci dice che la crisi sta costringendo parte degli stranieri a lasciare il Trentino. Questo dato ci dovrebbe fare preoccupare perché c’è il rischio che questa provincia diventi un territorio periferico». Senza dimenticare un altro aspetto della questione. Le comunità immigrate sono le più colpite dalla crisi perché sono quelle che accettano i lavori più duri, ma anche più precari. Sono i posti meno sicuri, i primi a saltare quando le aziende incontrano le prime difficoltà economiche.