Nel duro scontro tra Roma e Napoli, dichiarata per l’occasione dal sindaco De Magistris “comune derenzizzato”, è forse proprio Bagnoli la principale controversia: il convitato d’acciaio simbolo dell’immobilismo partenopeo. Nell’epoca del Rottamatore, il mese delle vacanze è dedicato alla questione bagnolese: un anno fa, al grido di “se riparte Bagnoli riparte il Sud”, da Palazzo Chigi si annunciavano novità importanti – “pochi mesi” – per risolvere la questione con la politica commissariale del fare. Oggi, un anno dopo, pare finalmente che il commissario cominci a delinearsi: quasi certo l’arrivo di Salvo Nastasi, neo vicesegretario generale della Presidenza del Consiglio, per un decennio uomo forte del ministero dei Beni culturali, e a Napoli già autore del riassesto del Teatro San Carlo (dove ho trovato pure moglie: Giulia Minoli, figlia di Giovanni). Ma, nomine a parte, Bagnoli è rimasta com’era: un deserto post-industriale, che da oltre vent’anni aspetta una riqualificazione, accumulando società fallite, aste deserte, bonifiche fatte male (indaga la magistratura), centinaia di milioni di euro pubblici spesi per strutture mai in funzione.
Quasi certo l’arrivo del commissario Salvo Nastasi, neo vicesegretario generale della Presidenza del Consiglio, per un decennio uomo forte del ministero dei Beni culturali
Sono più di cent’anni, e cioè da quando è nato il polo siderurgico, che Bagnoli divide Napoli. Bagnoli a inizio Novecento è una pianura di un’ampiezza e bellezza paesaggistica che ha pochi eguali, pur in un luogo già particolarmente fortunato come Napoli. Ci sono sorgenti naturali termali (qui Napoli comincia a cedere il passo all’area flegrea), cominciano a essere costruiti i primi moderni stabilimenti balneari e alberghieri, insomma è il luogo ideale per impiantare l’industria turistica della città: esattamente quello che è nei progetti oggi, anno 2015. In mezzo c’è invece un secolo di industria pesante, su cui l’opinione pubblica è totalmente divisa: da una parte è bene accolta, anzi è vista come il riscatto di una città nel progresso industriale, finalmente. Napoli, terza città industriale italiana nel dopoguerra, ha a Bagnoli una roccaforte rossa e l’officina di una nuova coscienza cittadina. Non c’è da stupirsi se è ancora un trauma per niente superato la decisione di chiudere, nonostante fosse un sito all’avanguardia: l’Europa produce troppo acciaio, dice Bruxelles, Bagnoli deve finire. È il 1990, due anni dopo si procede allo spegnimento: gestire la grana tocca, nella città degli operai, a un operaista ex ingraiano di nome Antonio Bassolino, nuovo sindaco partenopeo, il cui possibile clamoroso ritorno alla corsa per la sindacatura 2016 è il principale argomento di discussione in questi giorni a Napoli.
La chiusura di Bagnoli, coi pezzi pregiati smontati e spediti in India e in Cina, è vista da una grande fetta della città come la fine della Storia (il momento è esemplarmente raccontato nel gran romanzo “La dismissione” di Ermanno Rea). Ma accanto agli entusiasti, violentemente delusi, su Bagnoli ci sono da sempre anche gli avversi, tra questi, e tra i primi, l’ingegnere Francesco De Simone, autore del miglior Piano regolatore che Napoli abbia avuto. Il nodo non è tanto la presenza delle acciaierie a Napoli, ma la sua presenza a Bagnoli. Tant’è che pure nella celebre legge speciale, ispirata da Francesco Nitti poi presidente del Consiglio, per “il risorgimento economico di Napoli”, si parla di siderurgia, ma non lì, piuttosto nella già avanzata area industriale orientale della città (dove più volte in seguito si propone la delocalizzazione).
Come l’industria italiana sia finita, tra desertificazione e bombe ecologiche, lo sappiamo. Bagnoli ne incarna per esteso la sconfitta storica, in una scala nazionale assai più che cittadina
Vince invece l’Ilva, il trust creato a Genova nel 1905, allettata dai terreni liberi a quattro soldi, dalla vicinanza al mare per creare un proprio rapido approdo per il materiale, dalla nascita della ferrovia direttissima Roma-Napoli con lo scalo merci a Fuorigrotta. Addio bagni ed alberghi, Bagnoli diventa un’immensa pentola di fuoco con i suoi fumi e le sue ciminiere. Gli impianti si fanno sempre più estesi, aumentano le linee di produzione, Bagnoli è la città dell’incandescenza industriale, sommata alle naturali incandescenze flegree e vesuviane. Peraltro l’acciaio a Bagnoli non balla da solo: ci sono anche il cemento di Cementir, la chimica di Montecatini, l’amianto di Eternit.
Come l’industria italiana sia finita, tra desertificazione e bombe ecologiche, lo sappiamo. Bagnoli ne incarna per esteso la sconfitta storica, in una scala nazionale assai più che cittadina. Si è sognato di tutto per il suo futuro, ancora immaginario: la Città dello Sport, la Città della Vela, la Città della Scienza (l’unica nata: prese fuoco due anni fa), un quartiere residenziale modello, un museo Guggenheim come a Bilbao (dove dopo la chiusura delle acciaierie sono rinati, in un luogo qualche migliaio di volte meno bello), un distretto termale (ancora oggi nel sottosuolo scorre l’acqua termale a 42 gradi, che non alimenta alcunché: nemmeno le spa desolatamente chiuse).
Non c’è nulla. È l’immagine dell’inesistenza, Bagnoli, un momento della storia napoletana, quasi come il 1799 con la fine della Repubblica Napoletana (a proposito: giusto il 20 agosto di 216 anni fa vennero impiccati otto patrioti tra cui Eleonora Pimentel Fonseca, Gennaro Serra di Cassano e il vescovo Michele Natale), su cui intellettuali e classe dirigente (assai meno quella digerente) riflettono intorno a Napoli e la sua sconfitta con la storia. Il nuovo capitolo di questa biografia collettiva della morte civile sarà il prossimo film di Antonio Capuano (grande irregolare del nostro cinema, tra l’altro scopritore di un certo Sorrentino) che in “Bagnoli Jungle” (sarà alla Mostra del Cinema di Venezia) racconta tre generazioni all’ombra degli altiforni.
MESSAGGIO PROMOZIONALE
Dove non c’è un magistrato che ha sequestrato aree, c’è un curatore fallimentare alle prese con bilanci colabrodo
Gli scheletri industriali sono la testimonianza di un fallimento generale. Per uscirne davvero ci vorrebbero soldi a palate e soprattutto una strategia del settore pubblico, che invece offre un quadro di ripetute liti paralizzanti: il Comune di Napoli, che si sente estromesso dalle decisioni sul proprio territorio, contro il governo e pronto a ricorsi di ogni tipo sul commissariamento; la società statale Fintecna che porta in tribunale l’azienda comunale Bagnolifutura, incaricata del recupero, perché avanza crediti smisurati… Dove non c’è un magistrato che ha sequestrato aree, c’è un curatore fallimentare alle prese con bilanci colabrodo. Gli oltre 300 milioni di euro spesi finora non sono serviti a niente. Nastasi, o chi per lui, dovrà mettere mano a una catastrofe. «Ma che-che-che occasione, ma che affare! Vendo Bagnoli, chi la vuol comprare? Colline verdi, mare blu… avanti chi offre di più», cantava Edoardo Bennato. Un quarto di secolo fa.