«Internet non è certo il paradiso terrestre. Tutt’altro. È una straordinaria opportunità di emancipazione ma anche un ambiente dove si profilano nuovi poteri e minacce alla nostra autonomia». È uno dei punti fondamentali che traccia il volume “Giornalismi nella rete – Per non essere sudditi di Facebook e Google”, di Michele Mezza (Donzelli, 2015), di cui pubblichiamo un estratto. Michele Mezza dirige la comunità web www.mediasenzamediatori.org e insegna Culture digitali all’Università Federico II di Napoli. Come giornalista Rai è stato inviato del Giornale radio in Urss e in Cina. Nel 1993 ha collaborato al piano di unificazione del Gr; nel 1998 ha elaborato il progetto di RaiNews 24. Collabora con diverse riviste e testate.
Il famoso spot di Ridley Scott, con cui fu lanciato il Macintosh II durante il Super Bowl di San Francisco il 24 gennaio del 1984, che abbiamo visto ripetutamente nel nostro percorso, si conclude con il martello della giovane ribelle che irrompe nella sala degli automi e infrange il megaschermo da cui pontifica il Grande Fratello, e subito dopo risuona l’ammonimento: «affinché il 1984 non sia un “1984”». Il riferimento era, ovviamente al libro di George Orwell che denunciava il rischio di una società totalitaria. Quel quesito oggi ritorna, sotto altre spoglie: la rete è stata un vettore di totalitarismo? Siamo più o meno liberi rispetto a trent’anni fa? Insomma, il 1984 è stato un 1984?
“Noi credevamo che la rete fosse il paradiso terrestre e ora scopriamo che non lo è”. L’atteggiamento di Morozov e Keen ricorda quello trotzkista di fronte alla degenerazione stalinista della rivoluzione d’Ottobre
Una lunga teoria di brillanti pionieri di internet, da Andrew Keen, che ha rilanciato il tema con un suo libro Internet non è la risposta, o ancora Evgeny Morozov, The Net Delusion, da qualche tempo sta suonando il de profundis della rete. Il tono e il contenuto delle loro argomentazioni appare sorprendentemente convergente: noi credevamo che la rete fosse il paradiso terrestre e ora scopriamo che non lo è. Un atteggiamento non dissimile da quello del filone trotzkista di fronte alla degenerazione stalinista della rivoluzione d’Ottobre: credevamo che dopo la presa del Palazzo d’Inverno si potesse instaurare il regno della felicità e vediamo un inferno. Tutti e due i gruppi arrivano alla stessa conclusione: tradimento. L’ottobre sovietico è fallito perché Stalin era un demonio, e la rete sta diventando un nuovo 1984 perché ci sono i cattivi alla testa dei grandi gruppi tecnologici.
Credo che si tratti dello stesso errore: un fenomeno complesso non può essere semplificato e limitato alla caratterialità di questo o quel personaggio. Soprattutto non si può fare questa contorsione al solo scopo di salvare se stessi. Io credevo che tutto fosse buono in buona fede, se ho sbagliato la colpa è degli altri. Vale per Trotzkij sui bolscevichi e per Keen, Carr e Morozov sui social network. In entrambi i casi si tratta di una reazione psicoanalitica, che affiora per il troppo coinvolgimento. Il vero nodo è capire come fenomeni sociali, quali la rivoluzione russa o il diffondersi nell’intero pianeta delle relazioni digitali, siano decifrabili alla luce dei comportamenti sociali.
Nicholas Carr, uno dei più combattivi teorici digitali che aprì il filone revisionista con il suo famoso libro Internet ci rende stupidi? (nota 1), ha rivisto il suo cosiddetto «trotzkismo digitale», elaborando una posizione che trovo più aderente e funzionale a un approccio critico sulla rete. Infatti nel suo ultimo saggio, La gabbia di vetro, Carr non si lascia offuscare da una rabbia da tradimento, ma individua proprio nei meccanismi computazionali, ossia nelle modalità di programmazione, la vera gabbia da cui dobbiamo fuoriuscire per bonificare democraticamente la rete.
Bisogna promuovere forme di partecipazione e di conflittualità attiva per neutralizzare il rischio di un totalitarismo dato dai meccanismi dei media elettronici
Già McLuhan, lo abbiamo ricordato, ci avvertiva che: «Il messaggio di un medium o di una tecnologia è nel mutamento di proporzioni, di ritmo e di schemi che introduce nei rapporti umani». Una grande intuizione la sua, per il tempo in cui fu formulata: il 1964. Siamo proprio alla preistoria dei media elettronici. E il grande massmediologo prefigura una relazione diretta fra ritmo, materialità dei nuovi linguaggi, sistemi utenti e interfacce, e relazioni umane. È in questa interazione che oggi si annida il nuovo potere, anzi il rischio di un nuovo totalitarismo. Ma per questo bisogna promuovere forme di partecipazione e di conflittualità attiva per neutralizzare questo rischio. A partire dai soggetti sociali, dalle figure professionali e dalle modalità di utenza che interferiscono con la rete.
Internet, o meglio quel fenomeno che si basa sul decentramento della potenza di calcolo all’individuo, che ha visto in pochi anni centinaia di milioni di individui scendere in campo e misurarsi direttamente con i grandi poteri culturali, professionali, economici e geopolitici, non è certo il paradiso terrestre. Tutt’altro. È uno straordinario sistema sociale dove l’uomo ha una nuova e avanzatissima opportunità di emancipazione, enormemente superiore all’era della fabbrica e della manifattura materiale, ma al tempo stesso è un ambiente dove si profilano nuovi poteri e nuove minacce alla nostra autonomia. Esattamente come accadde con la rivoluzione d’Ottobre, o il Risorgimento, o la primavera araba: fenomeni che spostano in avanti il confronto politico e culturale ma che non sono mai buoni o sicuri una volta per tutte.
Internet non è certo il paradiso terrestre. Tutt’altro. È una straordinaria opportunità di emancipazione ma anche un ambiente dove si profilano nuovi poteri e minacce alla nostra autonomia
Al centro della scena c’è sempre il conflitto, ossia la capacità dei soggetti di contrapporsi e di controllarsi reciprocamente. Questo è il buco nero in cui stiamo cadendo: una mancanza di consapevolezza del conflitto digitale. Se, come è stato fatto con il capitalismo industriale lungo tutto il XX secolo, in cui il movimento operaio ha saputo negoziare con il capitale le forme di convivenza civile, realizzando quelle straordinarie mediazioni e intese che sono state il welfare e i diritti sociali, così bisogna trovare le capacità per intervenire nel nuovo ambiente digitale, negoziando e spostando in avanti gli equilibri con i grandi poteri tecnologici.
Se si lascia campo libero a Google o a Facebook, allora la rete sarà un grande luogo di nuove manipolazioni sociali.
Se si lascia campo libero a Google o a Facebook, allora la rete sarà un grande luogo di nuove manipolazioni sociali
Come spiega il filosofo Umberto Galimberti, la posta in gioco riguarda proprio il destino dell’uomo: «superato un certo livello, la tecnica cessa di essere un mezzo nelle mani dell’uomo per divenire un apparato che include l’uomo come suo funzionario. Per questo – conclude – i nuovi media sono un mondo che sostituisce il mondo» (nota 2). Il dualismo fra tecnica e uomo, meglio ancora fra sistema digitale e dunque algoritmo, e il suo utente, è la nuova forma del conflitto sociale. Siamo ancora oltre la soglia già avanzata di Bauman, che ci ammoniva come oggi la lotta di classe venga sostituita dalla lotta per apparire. Siamo a una contrapposizione vitale fra la prorompente potenza del sapere, che procede secondo una logica geometrica, raddoppiando, come ci dice la legge di Moore, ogni 18 mesi, e l’uomo, che si vede sempre più marginale, diventare appunto funzionario e non impresario del pensiero digitale.
Il dualismo fra tecnica e uomo, meglio ancora fra sistema digitale e dunque algoritmo, e il suo utente, è la nuova forma del conflitto sociale
È evidente che se in questa morsa non irrompe una nuova cultura politica in grado di riorganizzare interessi e forze sociali per introdurre forme di controllo e di contrapposizione alla direzione, tutta commerciale, che ha preso il sapere, la partita potrebbe diventare tragica. Nel lontano aprile del 2000, su Wired, Bill Joy, il vicepresidente di Sun Microsystems, scrisse un articolo che annunciava i termini di questo nuovo conflitto. «Il futuro non avrà più bisogno di noi», era l’esplicito titolo di un ragionamento, condotto da un profondo conoscitore e protagonista del progresso tecnologico, che spiegava come, seguendo il crinale della progressione tecnologica, entro alcuni decenni, si parlava del 2045, le nanotecnologie sarebbero del tutto sfuggite al nostro controllo. Oggi possiamo dire che la compiutezza degli algoritmi, la loro capacità di leggere le nostre anime, sia tale da profilare e prevedere i nostri comportamenti. È indispensabile che la cultura civile del pianeta trovi una via, progressiva e non oscurantista, per porre non limiti, ma contropoteri a questa dinamica. Si tratta non di procedere per veti o sottrazioni, ma semmai di elaborare soluzioni e culture più vantaggiose, più efficaci, più potenti di quanto ci propongano i nuovi santuari dell’algoritmo. Come scrive Matteo Pasquinelli nel suo ultimo libro Gli algoritmi del capitale, «la tecnologia deve essere accelerata proprio perché necessaria per vincere i conflitti sociali stessi» (nota 3).
L’oggetto della contesa sociale, del conflitto digitale, è proprio l’algoritmo. PageRank di Google ne è il mitologico esempio
L’oggetto della contesa sociale, del conflitto digitale, è proprio l’algoritmo, ossia quella esoterica espressione matematica che contiene i comandi e le istruzioni per risolvere i problemi cognitivi. PageRank di Google ne è il mitologico esempio. Una lunga serie di oggetti matematici che guidano computer e server nella soluzione dei problemi che poniamo noi con le nostre queries. È una soluzione oggettiva? Obbligata? Unica? Esclusiva? Neutra? Già solo porre queste domande suona strano, eccentrico, peggio, ideologico. Eppure solo se una pratica professionale, come quella giornalistica, che si vede costantemente minacciata dall’espansione di questo algoritmo, rompe l’incantesimo della neutralità, si può riaprire il gioco democratico e pluralista. Un grande intellettuale della modernità post-fordista, un pioniere della società della comunicazione totalizzante, come Gilles Deleuze, scomparso nel 1995, nel suo saggio Controllo e divenire, riuscì a centrare una categoria critica rispetto al macchinismo digitale, così scriveva: «Ad ogni tipo di società, evidentemente, si può far corrispondere un tipo di macchina: le macchine semplici o dinamiche per le società di sovranità, le macchine energetiche per quelle disciplinari,le cibernetiche e i computer per le società di controllo. Ma le macchine non spiegano nulla, si devono invece analizzare i concatenamenti collettivi di cui le macchine non sono che un aspetto».
MESSAGGIO PROMOZIONALE
Se dovessi sintetizzare la mission, il senso del progetto Giornalismi nella rete direi che è proprio la sollecitazione al mondo della comunicazione a concentrare la propria attenzione sui «concatenamenti collettivi» che orientano e guidano le macchine che ci sostituiscono. Per questo la crisi del mondo della comunicazione, le nuove forme di cittadinanza digitale, le nuove élites politiche, i nuovi movimenti a rete sono segmenti di una nuova cultura e dinamica che deve animare un vitale conflitto sulla rete che riduca lo strapotere dei monopoli e apra spazi e opportunità per uno sviluppo più trasparente. Su questo lavoreremo e a questo fine legheremo il nostro piccolo, ma non isolato contributo. Fuori dal cerchio.
Il libro di Dave Eggers Il cerchio, che abbiamo utilizzato come una delle metafore di orientamento del nostro percorso formativo, ci offre uno scenario non paranoico, e nemmeno catastrofista. Eggers nella sua descrizione dell’espansione opprimente di un social network che assomiglia tremendamente a come potrebbe essere Facebook fra solo cinque anni, prolunga, pacatamente verrebbe voglia di dire, senza esasperazioni o forzature, la traiettoria dei dispositivi digitali e dei comportamenti sociali che la macchina relazionale di Mark Zuckerberg ha già dispiegato oggi.
Facebook sta chiudendo il sistema giornalistico in un cerchio, con l’accordo che ha già stabilito con alcuni grandi giornali inglesi e americani come il «New York Times» e il «Guardian»
Quando ha scritto il suo libro Eggers non sapeva ancora del «cerchio» in cui Facebook sta chiudendo il sistema giornalistico con l’accordo che ha già stabilito con alcuni grandi giornali inglesi e americani come il «New York Times» e il «Guardian». È questo il tema che ricorre ossessivamente in tutto il nostro ragionamento. L’edicola globale, le notizie come erogazione discrezionale di un social network che prima ci profila e poi ci alimenta. Da questo cerchio si esce con più sapere, più autonomia e più sovranità nel proprio mestiere.
Meno supporti, meno collaboratori, meno competenze dobbiamo richiedere per operare competitivamente in rete, più siamo in grado di negoziare la nostra autonomia professionale e dunque il nostro valore sul mercato. Per questo abbiamo dato alcune indicazioni su come integrare la cassetta degli attrezzi: forgiare i propri strumenti è la caratteristica dell’artigiano. Di quella figura che segnò l’ultima straordinaria convergenza fra la cultura umanistica e le competenze scientifiche. Dal Rinascimento, da Galileo e Spinoza, poi la scissione dei saperi. In quel gorgo che si è creato è stata progressivamente inghiottita la complessità culturale del nostro genere, che si è sempre più assimilato a una serie numerica. L’algoritmo come causa e non come conseguenza è proprio il risultato di questa grande sconfitta culturale. Ricomporre questa forbice è oggi un tema non distinto da una nuova dignità professionale al tempo della potenza di calcolo. Ma è anche un terreno di lotta per salvaguardare la nostra convivenza, la nostra democrazia.
1- N. Carr, Internet ci rende stupidi? Come la rete sta cambiando il nostro cervello, Raffaello Cortina, Milano 2011
2- U. Galimberti, Psiche e techne. L’uomo nell’età della tecnica, Feltrinelli, Milano 1999
3- M. Pasquinelli, Gli algoritmi del capitale. Accelerazionismo, macchine della conoscenza e autonomia del comune, Ombre corte, Verona 2014