Il mondo è insopportabile e così anche Jonathan Franzen

La recensione di “Purity”

Purity , il quinto romanzo di Jonathan Franzen – e il terzo dopo Le correzioni (2001) e Libertà (2010) – è stato pubblicato il 1° settembre 2015 in un’atmosfera di attesa che Giulio D’Antona ha già riassunto la scorsa settimana. Franzen non delude le aspettative, e mostra ancora una volta di essere il miglior scrittore della generazione successiva rispetto a quella di Philip Roth, Cormac McCarthy e Don DeLillo. Allo stesso tempo, mette i suoi lettori davanti a un problema, forse più psicologico che letterario.

In una famosa pagina del Giovane Holden, il protagonista dice che i libri migliori sono quelli che fanno venir voglia di essere «amico per la pelle» dell’autore. Il problema, con Franzen, è che i suoi libri fanno sperare ardentemente di non aver mai niente a che fare con uno come lui.

I libri di Franzen fanno sperare ardentemente di non aver mai niente a che fare con uno come lui

Leggere Jonathan Franzen è come uscire con un amico di cui si è sempre ammirata l’intelligenza, e che allo stesso tempo è così totalmente assorbito da sé stesso che frequentarlo significa scendere ogni volta a terribili compromessi. Uno di quegli amici che ti costringono ad andare alla ricerca di una sfogliatella napoletana da mangiare alle tre del mattino, in una città che non si conosce e che soprattutto non è Napoli, perché quella è la voglia che in quel momento li trascina. Di solito, il piacere della loro conversazione e della loro intelligenza lascia ogni volta più ricchi e migliori, ma poi è sano prendersi qualche mese di pausa. Tra qualche mese ricorderemo solo i lati positivi della loro compagnia, avremo dimenticato la sfogliatella e saremo pronti a vederli di nuovo.

Così sono anche i romanzi di Franzen: nelle quattro linee principali della trama, portate avanti con una grande bravura architettonica, i temi ricorrenti sono il tormento delle relazioni umane, specie quelle di coppia; le differenze sociali e il tentativo, spesso vano, di superarle; il senso di colpa e i blocchi sessuali. Tutto questo suonerà familiare ai lettori dei precedenti romanzi di Franzen, e in particolare di Libertà. I tormenti dei suoi personaggi sono descritti in modo implacabile: se una relazione è ossessiva, l’ossessione trasparirà dalla pagina; se un’altra è infelice, la sua infelicità sarà straziante. Si capisce perché Franzen ha scritto un romanzo intitolato “Purezza”, ma molto difficilmente ne scriverà uno intitolato “Pietà”. 

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MESSAGGIO PROMOZIONALE

A fianco di questi temi più profondi, Franzen inserisce di nuovo elementi di critica sociale e di preoccupazioni a proposito dell’ambiente che toccano la proliferazione nucleare, la segretezza delle comunicazioni e una miriade di altri. Tutti trattati impeccabilmente, con intelligenza e profondità. Sempre restando fedeli alla scrupolosa ricerca fattuale che sta dietro tanti romanzi americani contemporanei. Pagando pegno alla mescolanza tra saggio e narrativa, ma senza esagerare, anche perché Franzen si guarda bene dal confrontarsi direttamente con chi ha dato gli esempi migliori in quel campo – David Foster Wallace, uno dei tanti rapporti umani irrisolti che il Franzen uomo si porta dietro.

La critica al nostro mondo in cui la privacy non ha più senso e il sistema economico non ha più pietà è un elemento centrale del romanzo, eppure il lettore non può che restare in un certo modo infastidito dal suo trattamento che assomiglia da vicino – solo con un livello supremo di finezza e armi retoriche – a quello che un diciottenne idealista e impegnato politicamente darebbe in una assemblea di istituto. «Qualche volta mi svegliavo e mi stupivo di essere ancora vivo», dice un personaggio preoccupato della proliferazione delle armi nucleari. In quel momento, il lettore è portato a preoccuparsi sul serio dei problemi di sonno di Franzen.

Non è un caso che il suo sia chiamato “realismo isterico”: nel suo approccio verso il mondo, Franzen ha la stessa mancanza di autoironia e indulgenza, in definitiva di tolleranza, di un isterico o di uno studente militante. È vero, il riscaldamento atmosferico è una tragedia. È vero, anche l’allevamento intensivo. Non parliamo poi dei sistemi di sorveglianza. Come cittadini, ne dovremmo essere coscienti. Come lettori, qualche volta vorremmo essere esentati da quei pensieri.

Ma questo non toglie nulla alla sua qualità letteraria, perché Franzen riesce a fermarsi sempre un attimo prima di diventare insopportabilmente didascalico. Lo straordinario livello di autocoscienza di Franzen, e qui sta il motivo per cui è uno dei migliori scrittori viventi, gli permette di proiettare i suoi personali tormenti, le sue personali ansie e insicurezze non in uno, ma in un’intera schiera di personaggi complessi e realistici.

Purity, accentuando una caratteristica che era già dei due romanzi precedenti, è forse la migliore seduta di psicanalisi degli Stati Uniti – e per estensione dell’Occidente – scritta finora da Franzen. In questo, Franzen sceglie di fare la stessa operazione di Philip Roth, trasponendo però i tormenti di un singolo nei tormenti di almeno quattro protagonisti, e mantenendo allo stesso tempo una testarda fedeltà alle sue ossessioni e alle sue idiosincrasie (gli uomini invariabilmente deboli o cattivi, le donne complesse e infelici, le madri ossessivamente presenti). Ci vuole bravura per riuscirci evitando di essere ripetitivi.

E poi, naturalmente, c’è l’amore, che alcuni hanno visto come il tema fondante di tutta l’opera di Franzen. C’è molto altro nei suoi libri, ma resta il fatto che Libertà raggiungeva i suoi momenti più alti quando descriveva un tragico triangolo amoroso. Quando si tratta di parlare dell’amore, Franzen è in grado di una tale sottigliezza proustiana, di una tale delicatezza, che perfino l’ansia dominante quasi in ogni pagina sembra essere per un attimo mettersi, in pace a favore dell’esattezza dell’espressione.

Purity è claustrofobico e grandioso. Si concentra troppo sui rivolgimenti dell’animo – che sono, purtroppo per Franzen, quello che meglio gli riesce di descrivere – per lasciare che lo sguardo si allarghi davvero a un grande panorama della società che lo circonda, come molti scrittori (ad esempio, John Updike) riescono a fare con insolita naturalezza.

La sua ansia – non a caso, il disagio dominante dei nostri tempi – gli impedirà per sempre di scrivere il Grande Romanzo Americano, perché alla descrizione della realtà Franzen non riesce a togliere la necessità di inserire il suo punto di vista, che è di condanna e di implacabile rivolta. Il GRA oggi è impossibile perché non c’è una vera società di cui parlare, una collettività con una voce. C’è il mondo, che va per la sua strada, e un ristretto numero di persone che dicono che quella strada non porta da nessuna parte dove valga la pena di andare. Tra queste ultime c’è Franzen.

Quindi grazie, Jonathan Franzen, e speriamo di leggerti di nuovo presto, perché ogni volta ci descrivi con una minuziosità da entomologo e una spietatezza da soldato. Ma se questa volta vuoi prenderti un po’ di tempo in più, come i nove anni che hai lasciato passare tra Le correzioni e Libertà, non te ne vorremo del male.

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