Perché il referendum per abrogare il Jobs Act è sbagliato

Perché il referendum per abrogare il Jobs Act è sbagliato

Il deputato Giuseppe Civati, uscito dal Partito Democratico, è promotore (o almeno è la figura rappresentativa) di una campagna referendaria di otto quesiti che vanno dall’Italicum al Jobs Act. In particolare, il sesto e settimo quesito attaccano il Jobs Act: il primo riguarda il «demansionamento» del posto di lavoro, l’altro la modifica della «tutela del lavoratore in caso di licenziamenti illegittimi». 

Ma entrambe le proposte di abrogazione sono “sbagliate”. La prima perché nel nostro Paese in presenza di rilevanti “ristrutturazioni” aziendali il demansionamento viene già applicato: la norma semmai è una forma di “regolazione” di ciò che le parti sociali realizzano ormai da anni. È bene ricordare che il “demansionamento” in una fase di ristrutturazione è paradossalmente una tutela per il lavoratore, l’alternativa è nella maggioranza dei casi il licenziamento.

Il settimo quesito del referendum è quello più rilevante, perché oggetto di maggiore dibattito della riforma del lavoro. Per essere chiari, a essere sotto “attacco” è il nuovo contratto a tutele crescenti (nello specifico la sua risoluzione). I critici della riforma accusano il Jobs Act di produrre un mercato del lavoro ancora più precario di quello precedente, anche se l’obiettivo dichiarato della riforma è mettere una “pezza” ad una situazione di “precariato” insostenibile. Se si guardano i rapporti di lavoro avviati nel 2010 e 2014, ci si rende conto che il contratto a tempo interminato assumeva (o meglio dire assume) un ruolo sempre più marginale nel mercato del lavoro (nel 2014 appena il 15 % del totale).

In base ai rapporti annuali delle Comunicazioni obbligatorie, viene fuori anche il fallimento delle riforme precedenti (Treu e Biagi). Non hanno migliorato la situazione occupazionale del Sud e hanno probabilmente “peggiorato” la qualità dei contratti di lavoro al Centro-Nord, senza incidere nel contrasto del lavoro sommerso. Insomma, peggio di così non si poteva andare.

Il nostro mercato del lavoro presentava (e saranno necessari anni perché migliori) uno dei peggiori rapporti tra “insider/outsider”, ovvero tra tutelati e non tutelati. Tale rapporto nel mercato del lavoro si traduce in una forte sperequazione tra le generazioni in termini di accesso e salario nel mercato del lavoro, a danno ovviamente di quelle più giovani.

Inoltre, va completamente scartata la visione della “teoria del Bus”, “teoria” di molti giuslavoristi ed economisti, i quali ipotizzavano dopo la Riforma Biagi che i contratti atipici sarebbero stati una sorta di “trampolino” verso la stabilità. Ma purtroppo i dati dicono che tale trasformazione è assolutamente marginale. D’altronde se la maggioranza dei contratti avviene nel settore dei servizi in professioni poco qualificare (commessi, assistenza ai non auto-sufficienti, pulizie, logistica…), dove i lavoratori sono “facilmente” sostituibili, è naturale che il “trampolino” non funziona, soprattutto in una fase di recessione.

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MESSAGGIO PROMOZIONALE

Aggiungiamoci anche il totale fallimento di modelli alternativi al contratto a tutele crescenti, in primis il contratto di apprendistato: aldilà di alcuni “casi” giornalisti, i settori coinvolti pongono non pochi dubbi sull’effettività necessità di avviare un giovane con un tale contratto, nascondendo casi di sovra-istruzione ed effetti di spiazzamento o “peso-morto” prodotti dalle agevolazioni economiche previste dal contratto. 

Riassumendo, il Jobs Act non danneggia le condizioni dei lavoratori perché queste sono già pessime, anzi proprio attraverso questa riforma c’è un timido tentativo di migliorare le cose.

Abrogando l’articolo sul dimensionamento, invece di aiutare i lavorati coinvolti in ristrutturazioni, finirebbero (in assenza di accordi tra le parti sociali) quasi certamente tra i licenziamenti collettivi. Mentre l’eventuale eliminazione delle modifiche ai licenziamenti illegittimi, bloccherebbe eventuali “stabilizzazioni”, creando tra l’altro un problema complesso nei confronti di quegli imprenditori che hanno assunto proprio per tali modifiche vedendo tradite le proprie aspettative. In realtà, i veri traditi dal referendum sarebbero proprio i precari, perché qualsiasi loro speranza di una stabilizzazione scomparirebbe con il contratto a tutele crescenti.

Pippo Civati propone l’abrogazione di articoli e principi che sembrano corretti, mentre sarebbero da cancellare le modifiche al contratto a tempo determinato previste dal “Decreto Poletti” (in sintesi 3 anni di contratto senza causale, una liberalizzazione difficile da trovare in altre legislazioni europee), perché rischiano di aumentare il livello di “precarietà” nel mercato del lavoro italiano. A questo va aggiunto l’errore di aver eliminato il contratto a progetto, già corretto dalla Riforma Fornero e quindi reso molto difficile da “eludere”: nella quasi totalità dei contenziosi il datore perde e si trova costretto a sanare la situazione.

Il Jobs Act rischia di essere cancellato o modificato prima di conoscerne gli effetti, un comportamento tipico del nostro Paese. Gli italiani sono ormai abituati a una riforma del lavoro all’anno, come se le costanti modifiche si traducessero in moltiplicatori di posti di lavoro, “aspirazione” piuttosto fantasiosa e sempre disattesa.