Come spiega un articolo del Financial Times, la Corea del Sud è ai primi posti nella classifica, non certo invidiabile, del numero più alto di suicidi: nel 2013 la media era di trentatré al giorno. Per scoraggiare il fenomeno è stato inventato un bizzarro rito-esperimento: organizzare finti funerali che siano – in qualche modo – catartici per i possibili aspiranti suicidi.
L’organizzazione che se ne occupa è la Korea Life Consulting e tra i suoi clienti vanta aziende come Samsung e Allianz, ben disposte a pagare perché i propri dipendenti sacrifichino un giorno di lavoro per «dire addio a se stessi» – nella speranza, s’intende, che non lo facciano davvero.
Quando, qualche anno fa, il giornalista Gabriele Romagnoli ha deciso di sottoporsi all’esperimento, la Korea Life Consulting aveva già celebrato cinquantamila riti. Romagnoli viene accolto con garbo, gli vengono mostrati alcuni lucidi esplicativi, gli viene chiesto di fare testamento – in mezz’ora, in modo da concentrarsi solo sulle cose e le persone più importanti – e poi viene messo in una cassa, perché assista al sobrio rito funebre che hanno imbastito per lui.
Certo, c’è bisogno di andare in Corea del Sud e farsi chiudere in una bara per scoprire che «la vita è breve»?
È questo bizzarro aneddoto – una sorta di esperimento socio-psicologico – che fa da cornice all’ultimo libro di Romagnoli, Solo bagaglio a mano, presentato il 5 settembre al Padiglione Alitalia di Expo, a Milano. Perché è proprio in questa occasione che il giornalista, già viaggiatore irrequieto e poco incline al radicamento, ha avuto modo di riflettere sulla necessità di viaggiare – e, soprattutto, di vivere – leggeri, senza quel bagaglio tutto occidentale di oggetti inutili e memorie ingombranti, che intralciano un percorso già troppo breve.
Certo, c’è bisogno di andare in Corea del Sud e farsi chiudere in una bara per scoprire che «la vita è breve»? Se lo chiede anche Romagnoli stesso. Ma per quanto il concetto possa sembrare già rimasticato – «tempus fugit», «life is short», «si arriva e si parte a mani vuote»… – la risposta, per l’autore, è sì: «Perché se passi tutto il tuo tempo a bere e mangiare, farti il nodo della cravatta e spacchettare cd, aspettare persone e aerei, quand’è che ti fermi per ammetterlo?».
Massimo cinque chili
Romagnoli, si diceva, è un viaggiatore indefesso. Ha abitato in 4 continenti, 8 città, 27 appartamenti e conta di visitare, nel corso della vita, almeno 100 paesi. E a 55 anni appena compiuti è già a quota 74. La metafora ideale per la sua riflessione è proprio il bagaglio a mano, la valigia piccola, essenziale, tratto distintivo del viaggiatore esperto contro l’ingombro ridondante dei turisti occasionali. Che sia zaino o trolley – annoso dibattito – non conta: è importante che sia piccola, pratica, maneggevole e, soprattutto, leggera, piena di capi «indispensabili e multifunzionali». «Massimo cinque chili, ingombro prestabilito, tale da entrare nell’apposito contenitore presso il banco del check-in».
La memoria, legata a doppio filo al possesso di oggetti fisici, oltre che una risorsa può diventare un’àncora. Anzi, una zavorra
Sono proprio i suoi aneddoti di viaggiatore che nutrono questo agile – poteva essere altrimenti? – volumetto: un vero e proprio inno alla leggerezza. La sostenibile leggerezza dell’essere contro l’insostenibile pesantezza del bagaglio ingombrante. Un bagaglio che è, naturalmente, anche emotivo e memoriale.
La memoria, legata a doppio filo al possesso di oggetti fisici, oltre che una risorsa può diventare un’àncora. Anzi, una zavorra. Romagnoli cerca di riabilitare un concetto che nel mondo occidentale spaventa particolarmente: la perdita, che di solito è vissuta come un trauma, ma che può facilmente tramutarsi in possibilità.
Esattamente come il bagaglio a mano che rivela il superfluo («se torni e ce l’hai fatta con quel numero di capi, fogge e colori, significa che non hai davvero bisogno di quanto, nel tuo guardaroba, esorbita»), un momento di epifania per quanto riguarda l’esubero è rappresentato dal trasloco, che gli psicologi definiscono un «trauma liberatorio». Perché è necessario un evento traumatico per rendersi conto di tutto il superfluo che ci circonda? Perché «disfarsi di qualcosa», scrive Romagnoli, «è diventato una raffinata sfida».
L’idea di perdere i ricordi, poi, ci terrorizza letteralmente. Li consideriamo «un patrimonio da non dissipare» e per proteggerli li convertiamo in memoria digitale. Memorie immense in spazi minimi. Ma si tratta pur sempre di oggetti fisici, che come tali possono rompersi o smarrirsi. «Persino la “nuvola”», avverte il giornalista «può dissolversi».
Spazi minimi, memorie immense
Ma è davvero un bene non perdere mai nulla? Conservare tutto come i fratelli Collyer, i due più famosi collezionisti di ciarpame della storia, uno pianista e l’altro avvocato, che fecero della propria casa di Harlem «un deposito dell’infinito»?
E allo stesso modo: è bene ricordare tutto, come il personaggio del racconto di Jorge Luis Borges, Funes el memorioso, che dopo una caduta da cavallo ha sviluppato una percezione e una memoria infallibili? «Discerneva continuamente il calmo progredire della corruzione, della carie, della fatica. Notava i progressi della morte, dell’umidità. Il meno importante dei suoi ricordi era più minuzioso e vivo della nostra percezione d’un godimento o di un tormento fisico». «Ho più ricordi io da solo», gli fa dire Borges, «di quanti non ne avranno tutti gli uomini insieme, da che mondo è mondo».
Serve lasciar vincere la memoria compassionevole, quella che consente di ricordare senza traumi
Nel racconto Ireneo Funes muore giovanissimo, a 21 anni. Quando il narratore lo vede l’ultima volta di anni ne ha 19, ma gli appare «monumentale come il bronzo e antico come l’Egitto». Nella vita reale casi simili a quello descritto da Borges esistono: si tratta degli individui affetti da «sindrome ipertimesica». Il neurobiologo James McGough segue una cinquantina di questi casi, tra cui Brad Williams, che è perfettamente a suo agio con la propria condizione, e Jill Price, che invece nella sua memoria prodigiosa vede una continua fonte di stress.
Al di là di questi casi estremi, stando al libro non si tratta tanto di sforzarsi di dimenticare, quanto di lasciare che la memoria selettiva faccia il suo corso. Lasciar vincere la memoria compassionevole, quella che consente di ricordare senza traumi. Un po’ come avviene, usando la stessa metafora, nel film di Wes Anderson Il treno per il Darjeeling. Un po’ come è stato fatto in alcune città distrutte dalle guerre e poi ricostruite.
Non a caso una delle città preferite di Romagnoli (oltre a Beirut) è proprio Rotterdam, «la capitale del qui e dell’ora». Rasa al suolo dai nazisti, è stata ricostruita secondo un progetto preciso all’insegna del design e dell’architettura innovativa. «Poteva stare lì, a piangere su se stessa, invece è andata avanti verso l’ineluttabilità del futuro». E ancora adesso è sempre al passo, continua a cambiare, è una città rimasta in fieri.
Invita i lettori a cancellare un po’ di numeri dalla propria rubrica, perché tutti quei contatti che potrebbero un giorno tornare utili, verosimilmente non ci serviranno mai
Solo bagaglio a mano
L’idea per questo libro è venuta a Romagnoli dopo aver visto il film Up in the Air (“Tra le nuvole”), in cui George Clooney interpreta un tagliatore di teste aziendale che viaggia di continuo con un bagaglio a mano perfetto. È diventato tanto esperto sul tema da tenere un ciclo di conferenze dal titolo “Che cosa c’è nello zainetto?”. Il suo sogno è riuscire a contenere tutto ciò che serve in un unico bagaglio a mano.
Anche Romagnoli, nel 2012, ha tenuto una conferenza molto simile, che poi è la versione embrionale di questo libro, nel quale l’autore, un po’ provocatoriamente, invita i lettori a cancellare un po’ di numeri dalla propria rubrica, perché tutti quei contatti che potrebbero un giorno tornare utili, verosimilmente non ci serviranno mai. Un consiglio che chi di mestiere fa il giornalista non seguirà (almeno, non senza danneggiare il suo lavoro).
Un concetto però gli preme più di tutti: nell’ottica di ridurre tutto all’essenziale, anche il proprio libro può essere ridotto a un aforisma, che è il titolo stesso del volume: Solo bagaglio a mano: l’unico consiglio che Romagnoli ritiene davvero fondamentale. Less is more. E more is less.
Sta al lettore poi giudicare se la memoria è davvero da preservare sempre e a ogni costo o se a volte è vero anche per noi, come per Funes, che la memoria «è come un deposito di rifiuti». Mentre l’oblio, come scrive Khalil Gibran, «è una forma di libertà».