UniversitàIl problema dell’Università italiana? Più che la mancanza di soldi è lo schiavismo accademico

Ben venga l'assunzione di 1000 nuovi ricercatori annunciata dal ministro Giannini, ma i problemi degli atenei italiani sono molto più profondi

Il ministro per l’Istruzione, l’Università e la Ricerca Stefania Giannini ha annunciato pochi giorni fa l’assunzione di 1000 nuovi ricercatori, prevista all’interno della legge di Stabilità approvata dal consigli dei ministri. È un buon segnale, ma non basta: serve un’inversione di rotta nelle dinamiche radicate nella nostra università, quali lo “schiavismo” accademico che i nostri studenti, dottorandi e ricercatori vivono quotidianamente nei laboratori – e non solo – di tutto il paese.

Il salario di un dottorando in biologia a Zurigo equivale a circa 2600 euro, più del doppio rispetto ai 1100 euro che vengono pagati – non sempre – dalle nostre università

Per cercare una soluzione, per esempio, si è parlato molto della differenza del salario che gli scienziati italiani percepiscono rispetto alla maggior parte dei colleghi europei: il salario di un dottorando in biologia a Zurigo equivale a circa 2600 euro, più del doppio rispetto ai 1100 euro che vengono pagati – non sempre – dalle nostre università. Si è parlato invece poco delle ragioni sociali che spingono i nostri migliori studenti a lasciare i laboratori del nostro paese, per trasferirsi, come spesso accade, nelle istituzioni accademiche di tutto il mondo. Ad esempio, varcando la frontiera con la Svizzera, è possibile notare come le università siano piene di talentuosi ricercatori italiani: qui lo schiavismo accademico delle nostre università è del tutto assente, sostituito invece dalla libertà di apprendimento. Ma quali sono, dunque, le ragioni sociali che portano alla fuga dei nostri talenti?

Bisogna innanzitutto analizzare la situazione attuale degli atenei italiani, in particolare nel settore scientifico, dove soffrono di mancanza di prestigio. Nel QS University World Ranking del 2015, una nota classifica delle migliori università al mondo per settore, nella categoria delle scienze naturali il primo ateneo italiano risulta essere La Sapienza di Roma, all’80° posto. Nelle prime 150 della classifica compaiono solo altri due atenei italiani oltre alla Sapienza: il Politecnico di Milano (86°) e l’Università di Bologna (127°); la più antica università del mondo occidentale, la prima ad assegnare il nome di “Universitas” ad una corporazione di studenti ed insegnanti, si classifica solo 204° nella classifica generale delle università, a segnalare che il calo di prestigio non è limitato all’ambito scientifico.

Mentre i nostri atenei vivono all’ombra degli splendori del passato, i nostri vicini svizzeri riescono invece ad attrarre i migliori scienziati del presente e del futuro: per quanto riguarda le scienze naturali, il Politecnico Federale di Zurigo (ETH) è il sesto ateneo al mondo per importanza, secondo le classifiche, mentre il Politecnico Federale di Losanna (EPFL) è 13°. Tra le prime 150 troviamo anche l’ateneo di Ginevra e l’Università di Zurigo. Sebbene il numero di pubblicazioni in Italia sia maggiore di quello degli scienziati elvetici – circa il doppio – la qualità delle pubblicazioni è decisamente inferiore, come attestato dal numero di citazioni medie per singolo articolo, circa un terzo in meno rispetto a quelle dei colleghi svizzeri, che da anni si attestano nelle primissime posizioni al mondo per numero singolo di citazioni per articolo. Come a dire: facciamo di più, ma lo facciamo peggio.

Sebbene il numero di pubblicazioni in Italia sia maggiore di quello degli scienziati elvetici – circa il doppio – la qualità delle pubblicazioni è decisamente inferiore, come attestato dal numero di citazioni medie per singolo articolo, circa un terzo in meno rispetto a quelle dei colleghi svizzeri

La ragione del clima asfissiante in cui i nostri studenti vengono formati trova solide radici nella nostra cultura sociale ed economica. La mancanza di investimenti da parte del nostro Stato genera, nei nostri accademici, il bisogno estremo di trovare dei fondi per la propria ricerca scientifica. I professori italiani spendono perciò la maggior parte delle proprie energie e del proprio tempo a convincere potenziali investitori piuttosto che a dedicare il proprio tempo alla didattica. Di conseguenza, la necessità di produrre pubblicazioni, le uniche testimonianze della propria attività scientifica, ricade sugli studenti – dottorandi o tesisti – che vedono trasformare il loro lavoro in pura manodopera, senza quasi alcuna possibilità di utilizzare le proprie competenze teoriche, costretti, a volte, a orari di lavoro (non pagato) che non sfuggirebbero a nessun sindacato, in altri contesti.

Il problema è dunque la necessità da parte dei professori di avere tutto sotto controllo: devono infatti trovare investitori e fondi, e quando ne dispongono non rimane comunque margine d’errore. Non ci si può permettere il minimo sbaglio da parte di uno studente.
Per queste ragioni gli studenti italiani hanno raramente la possibilità di gestire e pianificare il progetto di ricerca che gli viene assegnato, perché se ne occupa il professore o un supervisore che gli è strettamente legato. Di conseguenza i nostri studenti tendono a sviluppare una minor capacità di organizzare indipendentemente il proprio lavoro.

Dall’altra parte del confine, in Svizzera, la situazione è opposta: gli studenti hanno spesso piena libertà di pianificare i propri esperimenti, di seguire la propria intuitività scientifica, a volte sbagliando. Il professore assume la figura di mentore, meno preoccupato agli aspetti economici – eventuali sprechi ed errori – e più a quelli scientifici. Nessun errore è dunque possibile nei laboratori italiani, nessuno spreco. Lo studente deve presto imparare a districarsi nella burocrazia – ordini, buste, firme – piuttosto che pianificare una serie di esperimenti. Nel tempo, questi comportamenti, queste pressioni costanti, questa competizione tra colleghi che viene naturalmente a determinarsi, generano negli studenti un senso di inquietudine e più in generale di insoddisfazione che sta alla base della ricerca di qualcosa di nuovo, spesso un posto di lavoro all’estero.

All’estero si assiste alla condivisione delle conoscenze, all’ascolto delle opinioni. Il rispetto verso professori di fama internazionale è consueto in tutto il mondo, ma non richiede il timore o la quotidiana reverenza

All’estero si assiste alla condivisione delle conoscenze, all’ascolto delle opinioni. Il rispetto verso professori di fama internazionale è consueto in tutto il mondo, ma non richiede il timore o la quotidiana reverenza: ogni idea viene ascoltata, migliorata e, se meritevole, messa in pratica. Ecco dunque perché gli italiani scappano. Ecco dunque perché una minore pressione economica garantisce un lavoro più libero, maggiormente autogestito, con ricercatori più felici e la certezza di una produzione scientifica migliore.
Non basta qualche posto fisso in più, per quanto sia assolutamente necessario, ma serve un’iniezione di fondi che generi indipendenza e stimolo intellettuale a tutti i livelli della ricerca. Perché se è vero che esistono i “cervelli in fuga” è anche vero che, almeno all’inizio, i “cervelli” devono transitare dalle nostre parti.