«A qui profite l’Expo?» Il 30 ottobre scorso, a un giorno dalla chiusura, Le Monde ha cercato di fare un bilancio dell’esposizione, chiedendosi a chi giovi o abbia giovato. Una domanda a cui molti osservatori hanno cercato di rispondere in più modi: coi numeri dei ricavi realizzati da operatori e padiglioni nel perimetro del sito espositivo, contando il numero dei biglietti staccati, valutando le camere d’hotel occupate durante l’evento o i ricavi di negozi ed esercizi commerciali nell’intorno dell’area metropolitana milanese. Analisi e performance buone, ma tutte “expocentriche”. Il feeding frenzy – la foga dei pesci che si buttano sul cibo – ha motivato tanti soggetti a lanciarsi sull’evento con efficacia, scegliendo come target i visitatori reali in quanto consumatori di alberghi, gadget, cibo, eventi.
Molti di più sono invece i soggetti che hanno inseguito i visitatori virtuali, per entrare nel loro portafoglio di consumo e cercare semplice attenzione. Fuori dal gran ballo degli eventi turismo, dalla gran bolla della ristorazione pronta ad esplodere, sono infatti le imprese produttive. Un mondo anch’esso stimolato, coinvolto e motivato ad agire dall’Esposizione Universale, da oltre un paio d’anni; un insieme fitto di aziende che oggi cerca di fare un bilancio delle azioni mosse prima e durante Expo 2015 proprio come i padiglioni ed i ristoranti di Cardo e Decumano che tirano giù le saracinesche e svuotano la cassa.
A chi ha giovato Expo? Una domanda a cui molti osservatori hanno cercato di rispondere in più modi: coi numeri dei ricavi realizzati da operatori e padiglioni nel perimetro del sito espositivo, contando il numero dei biglietti staccati, valutando le camere d’hotel occupate durante l’evento o i ricavi di negozi ed esercizi commerciali nell’intorno dell’area metropolitana milanese
Facendo un giro tra queste si scopre una semina più paziente, qualcosa di diverso rispetto al mordi e fuggi piratesco di chi, molto legittimamente, va detto, ha cercato di guadagnarci sul momento. Sono questi i veri protagonisti economici, quelli “fuori da Expo”, in seconda fila, ma in grado di mobilitare capitali, creare posti di lavoro, impiegare azioni visibili e durature: le imprese che hanno scelto come target non il portafoglio dei visitatori, ma la loro attenzione.
Per tutte queste Expo è stata davvero un’esposizione nel più reale dei significati, perché hanno usato l’evento per esporsi, cercando di aumentare la loro visibilità. Va da sé che i settori ed i marchi più coinvolti in questo processo di esposizione – o meglio di comunicazione – siano stati due: quelli dell’agroalimentare, di diritto, e l’abbigliamento, in quanto settore di consumo ben saldato alla classe media, o per quel poco che resta di essa.
L’impegno economico di questi due comparti solo tangenti l’Expo – non erano lì fisicamente per vendere – ha avuto a sua volta due obiettivi precisi: raggiungere italiani e stranieri con campagne di comunicazione realizzate freneticamente in questi sei mesi. Per queste realtà imprenditoriali, la concorrenza, i nemici, gli ostacoli non erano certo rappresentati dai ritardi, le infrastrutture mancanti, le tangenti, la disorganizzazione, ma sono stati più semplicemente i competitor esteri.
Quanto i francesi avrebbero voluto una portaerei come Expo per parlare di prodotti agroalimentari francesi a 20 milioni di visitatori, e lanciare dalle altrettanto ottime agenzie francesi, una pioggia di missili diretti ai consumatori esteri in arrivo!
Se appare evidente l’invidia francese di una valutazione di Expo parziale e limitata al numero di visitatori, che si interroga infatti solo sulla macchina organizzativa, efficace ma inefficiente, se ne nasconde una molto più consistente e cinica: quanto i francesi avrebbero voluto una portaerei come Expo per parlare di prodotti agroalimentari francesi a 20 milioni di visitatori, e lanciare dalle altrettanto ottime agenzie francesi, una pioggia di missili diretti ai consumatori esteri in arrivo!
Ma rien ne va plus, les jeux sont fait, e nei «primi mesi del 2015 – recitava il Nielsen Expo Advertising Tracking – le oltre 80 aziende sponsor e partner di Expo hanno investito oltre 55 milioni in pubblicità, una cifra pari a circa il 30% dei budget di comunicazione».
Tolti le grandi imprese, Expo è così stato un efficace boost per la comunicazione di piccoli e medi imprenditori stimolati dalla vivacità odierna del settore food. Quella che sta facendo da stimolo per produttori, trasformatori, distributori, ma anche stuoli di start up, agenzie di comunicazione, marketing manager, social media manager di imprese che non sono solo i big del caffè, del cioccolato, della pasta, della grande distribuzione, ma i birrifici artigianali, le piadinerie, i pastifici, le piccole catene di ristorazione, i piccoli trasformatori di salse e passate, etc…
Questo confronto forzato con il mondo ha così costretto centinaia di piccoli soggetti a metter mano al portafoglio, fino a quel momento restii ad investire in qualcosa che pensavano inutile, come la comunicazione
Cosa è stata Expo per tutta questa massa che compone il nocciolo duro della Foodeconomy italiana se non un’ottima occasione per comunicarsi, sentendo addosso per sei mesi gli occhi del mondo? «Una comunicazione all’italiana», secondo Carlo Meo, AD di M&T Srl, per cui l’eredità di EXPO può essere stata per le aziende «un tentativo, seppur positivo, di comunicare guardando ad una dimensione internazionale».
Questo confronto forzato con il mondo ha così costretto centinaia di piccoli soggetti a metter mano al portafoglio, fino a quel momento restii ad investire in qualcosa che pensavano inutile, come la comunicazione. Sottolinea infatti Marco Bettiol in una ricerca citata nel suo Raccontare il Made in Italy (Marsilio Editori) che se vi è una «quota significativa di imprese (italiane, ndr) che non hanno una strutturazione delle competenze della comunicazione» le ragioni sono legate in parte alla dimensione aziendale ma principalmente «ad una mancata comprensione dell’importanza della comunicazione» (il 76% del campione sondato che vi rinuncia ha infatti dichiarato di “non averne bisogno”).
La parte di Expo con il segno più va quindi attribuita a quell’Italia che grazie ad Expo ha deciso per la prima volta di parlare al mondo, senza nemmeno poterne prevedere i risultati. Una parte coraggiosa che rappresenta un cambiamento di mentalità importante, una “perdita di verginità” della comunicazione aziendale, un frammento di economia del cibo che però potrà dare un senso ai propri investimenti solo con la chiusura dei bilanci futuri.
La parte di Expo con il segno più va quindi attribuita a quell’Italia che grazie ad Expo ha deciso per la prima volta di parlare al mondo, senza nemmeno poterne prevedere i risultati.
Solo allora potrà dire se sarà stato utile, in un momento di difficoltà finanziaria, accettare la scommessa di Expo buttando il cuore oltre l’ostacolo. Solo allora potrà dire d’aver avuto ragione su tante azioni individuali, sprovvedute o coraggiose, nate e cresciute in ordine sparso, istintivamente e senza coordinamento, che faticano ancora a riunirsi sotto il cappello di qualche brand comune. Per le imprese che hanno provato l’ebbrezza e la frenesia di sei mesi infuocati, correndo a stampare borchure, a twittare in lingue sconosciute, l’Expo è stata uno scalino su cui salire per guardare oltre il capannone, per farsi filmare e fotografare da stranieri inconsapevoli, ancora, dei frutti del nostro made in Italy.
Solo tra qualche anno sarà possibile capire se Expo e la crisi di questi anni avranno prodotto un «collective learnign…condivisione di pratiche, competenze e conoscenza» di cui secondo il sociologo Mauro Magatti deve oggi dotarsi la nuova borghesia produttiva.
@antoniobelloni1