La gamba di legno, l’uncino, le bandane, barbe, la benda sull’occhio. Sono alcuni dei tratti tipici del pirata caraibico che imperversava nei mari delle Antille tra seicento e settecento, senza dimenticare il più importante di tutti: il pappagallo, come animale di compagnia.
Tra tutti gli stereotipi del filibustiere, questo è – incredibile a dirsi– del tutto vero. Lo spiega qui Colin Woodard, autore di The Republic of Pirates. Personaggi come Long John Silver, nato dalla penna di Robert Louis Stevenson, avevano un pappagallo con sé. Sulla spalla, in gabbietta. Non si trattava di una geniale invenzione letteraria: nell’età d’oro della pirateria c’erano davvero, e accompagnavano i corsari (sì, qui si usa pirata/corsaro/filibustiere in modo indifferenziato: è sciatto, ma almeno è consapevole) nelle lunghe traversate sul mare. Da un’isola all’altra, da un veliero all’altro, le giornate passate navigando erano tante, e molto noiose.
E allora, un compagno simpatico, che non chiedeva troppo cibo, che non necessitava di spazio, sgargiante e divertente era proprio il benvenuto. Il pappagallo, così, si prestava alla perfezione a questo compito.
E in più, se ci si stufava anche dei pappagalli, li si poteva rivendere. Erano apprezzati per il colore e per la voce, perciò avevano un buon mercato. Sbarcando in un porto qualsiasi, purché non si venisse riconosciuti dalla polizia e messi in galera, non era difficile piazzarli a qualcuno. Certo, poi la bestiola avrebbe ripetuto le bestemmie dei pirati, ma forse anche questo era parte del divertimento.
All’epoca, i pappagalli più richiesti provenivano dai dintorni di Vera Cruz, una regione della costa messicana. E anche oggi, fanno notare gli studiosi, la zona è un centro per il traffico clandestino di pappagalli. Perché i pirati non ci sono più, ma le tradizioni, anche quelle peggiori, restano.