Ci si chiede spesso cosa distingua l’Italia da altri Paesi, europei ma non solo, che nonostante la crisi – e nonostante il peso di economie ormai mature e non emergenti – comunque crescono più di noi. Una gran parte della risposta sta nella produttività. Che può essere definita alternativamente come il reddito prodotto da ogni lavoratore, o da ogni ora lavorata, naturalmente in proporzione al suo costo.
Comunque vogliamo intenderla è qui che sta il ritardo del nostro Paese. O meglio, la sua caduta.
Già, perché anche se può sembrare impossibile, c’era un tempo in cui l’Italia guidava l’Europa, nella classifica della produttività. Sopra Svizzera e Austria, tanto per dire. Nel giro di quindici anni, però, siamo scivolati dalla testa alla coda, a un livello medio-basso. Molto basso, se non consideriamo i paesi dell’est.
PIL per ora lavorata nel 2001 e nel 2014 – Dati Ocse
Veniamo ai numeri: nel 2000, il livello di produttività era superiore a quello della zona euro, ora è sotto di dieci punti percentuali. C’è un Paese, in particolare, che nel 2000 era dietro di noi di ben 15 punti percentuali e che oggi ha una produttività del lavoro più alta della nostra.
Colpa della recessione? Anche. Tuttavia, forse, il principale colpevole è un altro. Più precisamente, si tratta dell’information and communication technology (Ict, per gli amici), in cui dal 2011 in poi abbiamo segnato dei cali continui di produttività in contrasto con la media della zona euro. È sempre con la Spagna però che il confronto è impietoso: nel 2014 la produttività dell’Ict italiano è calata dell’1,6%, mentre nel Paese iberico è cresciuta del 6,1%.
Le conseguenze – e le differenze – in termini di crescita dal reddito sono evidenti. In Spagna il Pil cresce del 3,5% ed è una delle locomotive d’Europa, mentre noi arranchiamo a furia di zero virgola, sempre sotto la media, e dobbiamo consolarci con la panacea del “segno più”.
Tasso di crescita del PIL per ora lavorata (Italia-Ue e Italia-Spagna) Fonte Ocse
Le cause, ora. Una, soprattutto: l’Italia è il Paese in cui invece che tagli alla spesa pubblica corrente, negli ultimi anni, si è preferito colpire costantemente la spesa in conto capitale, ovvero gli investimenti pubblici. Secondo l’analisi di Unimpresa, su dati della Banca d’Italia, nei primi sei mesi del 2015 la spesa corrente è salita di 20,1 miliardi rispetto allo stesso periodo dell’anno prima, mentre quella in conto capitale è diminuita di 2,3 miliardi, e non è un fatto congiunturale: se nel 1981 il rapporto investimenti fissi lordi/Pil era del 3,5%, si è poi passati a 3,1% del 1991, al 2,4% del 2001, fino al 1,4% del 2015.
Intesa San Paolo, Startup Initiative – MESSAGGIO PROMOZIONALE
Non è un caso che in Spagna il 13,5% della rete ferroviaria sia ad alta velocità, mentre è il 5,4% nel nostro Paese. La nostra carenza di investimenti e il conseguente danno in termini di produttività delle imprese è naturalmente condizionato anche dal fatto che in Italia, come rileva l’Autorità per la Vigilanza sui Contratti Pubblici (Avcp), un km di autostrada costa il doppio che in Spagna, mentre uno di Tav anche tre volte.
Anche quelle relative alla banda larga sono infrastrutture. Soprattutto, in un Paese come il nostro in cui, nel 2015, secondo uno studio della Commissione Europea, il costo di una connessione tra i 4 e gli 8 Mbs costa il 78% più della media europea, e una tra gli 8 e i 12 Mbs addirittura il 107% in più. Non può quindi stupire il nostro ritardo nel settore Ict a questo punto. Un ritardo che diventa quello di una nazione intera.