Ad Auschwitz c’era l’amore

La storia di Mala ed Edek, lei ebrea, lui polacco cristiano, è una favola non a lieto fine. Racconta l’incontro nel lager, la fuga. Ma racconta una storia di resistenza quotidiana, che passa anche per l’innamoramento

Questa è una storia d’amore improbabile, ambientata in uno dei luoghi più improbabili del mondo. La coppia stessa è improbabile. I protagonisti sono Mala Zimetbaum, ebrea di origine polacca ma cresciuta ad Anversa, e Edek Galiński, un ragazzo poco più giovane di lei, anche lui polacco ma cristiano. Si incontrano nel 1943, nel campo di concentramento di Auschwitz. Si innamorano (cosa molto difficile, nel lager) e decidono di fuggire insieme. Addirittura, ci riescono.

La storia di Mala e Edek, raccontata da Francesca Paci nel libro Un amore ad Auschwitz, è una storia vera e, al tempo stesso, «una favola senza lieto fine». La fuga dei due innamorati durerà poco, qualcosa andrà storto e saranno costretti a ritornare nel campo. Al tempo stesso, è anche una storia censurata, dimenticata. Trasmessa solo per «memoria orale», sommata o poche altre testimonianze, vaghe e reticenti. Non è semplice capire perché.

Mala è una figura complessa. Prima di tutto, non era una prigioniera come le altre. La sua conoscenza delle lingue (ne parlava almeno cinque: polacco, fiammingo, francese, tedesco, inglese, yiddish) la rese indispensabile per l’organizzazione del campo. I nazisti l’avevano subito adoperata come aiutante, fin dalla sua prima deportazione da Anversa a Malines, per redigere le liste dei prigionieri. Ad Auschwitz, in quanto interprete, staffetta e fattorina aveva accesso a tutto il campo. Ma questo non vuol dire che fosse una collaborazionista, anzi. Era «la cosa più lontana dal kapò», spiega Francesca Paci.

Sembrava naturale che i due finissero per incontrarsi. Meno, che nascesse una storia d’amore

Ogni testimonianza racconta il suo impegno per aiutare gli altri, gli incoraggiamenti, la presenza continua e confortante. Ma soprattutto, il fatto che, quando poteva, manipolava le liste delle prigioniere: assegnava lavori meno faticosi a chi era in cattive condizioni e, se riusciva, toglieva di nascosto i nomi dagli elenchi di chi era destinato alle camere a gas. «Con ogni probabilità Mala sostituiva i numeri delle persone ancora vive con quelle di altri già morti». Ancora oggi ci sono persone che devono a lei la vita, e la ringraziano per questo. Un’eroina, senza dubbio. «Non l’invidiavamo. […] Al contrario, risvegliava in noi l’idea che qualcosa fosse possibile. L’adoravamo. Era bella e seria, in lei non c’era mai civetteria», diranno di lei.

Lui, invece, era ad Auschwitz fin dal 1940. Arrivato su uno dei primi convogli, con un gruppo di prigionieri politici polacchi, aveva solo 17 anni. Proveniva da una Polonia rurale, provinciale e antisemita. Si era unito a circoli della resistenza anti-tedesca dopo l’invasione nazista del ’40, ma finì nei rastrellamenti della AB-Aktion, operazione con cui i tedeschi decapitarono la classe dirigente polacca, con 30mila persone arrestate e deportate. Ad Auschwitz sopravvisse lavorando come meccanico e legando con gli altri prigionieri. Quando Mala arrivò nel campo era diventato un punto di riferimento per molti. Sembrava naturale che i due finissero per incontrarsi. Meno, che nascesse una storia d’amore.

Quello di Mala ed Edek è un amore scandaloso. Nell’ambiente da cui lei proveniva, non era vista di buon occhio l’unione tra un’ebrea con un cristiano. Peggio ancora, con un cristiano di estrazione antisemita. Questo aiuta a spiegare, almeno in parte, la dimenticanza, la censura su un personaggio che, a suo modo, è stato eroico. Ma c’è dell’altro. L’amore tra Mala ed Edek getta luce su un altro aspetto del lager, spesso lasciato in ombra, nello sfondo. Perché mostra la possibilità dell’amore: il fatto che anche ad Auschwitz, nell’orrore delle deportazioni, tra le migliaia di omicidi, di sofferenze, di crudeltà, esistevano momenti di bellezza.

È difficile immaginare che un apparato scientifico di annientamento come quello nazista avesse sbavature, nelle quali qualcuno potesse infilarsi, fare il doppio gioco e tentare di «rivolgere il gioco del sistema contro se stesso»

Questo contrasto con un’idea “monumentalizzata” dell’Olocausto, emersa verso la fine degli anni ’70, è peoblematico. La Shoah (e su questo nessuno discute) è stata il “male assoluto”, e Auschwitz ne è il simbolo. Di conseguenza, non c’è e non può esserci spazio per storie d’amore o, peggio ancora, di sesso – come invece avveniva, pur tra difficoltà estreme. Ed è difficile immaginare che un apparato scientifico di annientamento come quello nazista avesse sbavature, nelle quali una come Mala potesse infilarsi, fare il doppio gioco e tentare di «rivolgere il gioco del sistema contro se stesso». Dove si potevano corrompere le SS, trafficare documenti, vestiti, cibo. Il timore è che, così raccontando, venga sminuita la gravità di quanto accaduto, e che i negazionisti, sempre dietro l’angolo, ne approfittino.

Eppure, nella difficotà della “zona grigia”, quella in cui, come spiega Primo Levi, chiunque poteva essere un tuo potenziale nemico, Mala ed Edek, agivano secondo regole diverse. Aiutarono chi potevano, fuggirono per raccontare (forse con una buona dose di ingenuità, visto che il mondo già sapeva), e non tradirono mai nessuno. Ma soprattutto, si amarono. Per incontrarsi, racconta il libro, si davano appuntamento nel posto più sicuro, cioè il laboratorio di radiologia, dove i nazisti conducevano esperimenti di sterilizzazione con i raggi X. Visto ora, può apparire come una profanazione dell’orrore, e non è del tutto sbagliato. Ma allora l’orrore era presente, era tutto intorno, era un abisso in cui si rischiava di cadere. Non era da ricordare, ma da combattere, tutti i giorni. Anche così: facendo l’amore.