«Una volta i genitori che si rivolgevano a noi erano su d’età, disorientati, e non sapevano cosa fare». Il loro figlio, più o meno intorno ai 20 anni, si era appena dichiarato omosessuale. «Oggi le cose sono cambiate. I genitori sono più giovani, più preparati, più consapevoli». E i figli, a loro volta, «fanno coming out prima», spiega Massimo, che fa parte dell’Agedo, l’associazione di genitori (e amici) di persone Lgbt, nata a Milano nel 1992. «Ora un ragazzo si dichiara omosessuale intorno ai 12/14 anni», con variazioni a seconda del contesto in cui vive. Cioè se «l’ambiente familiare e sociale che hanno intorno è aperto o no sulla questione». Nel primo caso lo fa poco tempo dopo averne preso consapevolezza, «non più di uno o due anni».
In ogni caso, sul sito dell’associazione c’è un prontuario di domande e risposte per genitori in difficoltà. Si parte dal grado zero: “Che cos’è l’omosessualità?”, si passa per “Cosa succede a mio figlio?” fino al grande non detto: “È colpa mia?”. La risposta, come è ovvio, è no. «Tuo/a figlio/a non è così per qualcosa che hai fatto o che ha fatto qualcun altro». L’origine e le cause dell’omosessualità, al momento, sono una questione molto dibattuta. Gli scienziati, come sintetizza questo documento dell’Apa (American Psychological Association), non hanno raggiunto un consenso sulla questione. La posizione prevalente tende a supporre un’influenza genetica (ci sono molti studi al riguardo, ma nessuno definitivo) combinata con fattori ormonali, sempre in fase pre-natale. In ogni caso, non è una condizione modificabile dall’esterno (come diverse letture, influenzate dall’appartenenza religiosa, invece vorrebbero) né dipendente dalle varie situazioni ambientali-culturali che può incontrare il bambino (per cui, no, non dipende dal fatto se ha due genitori dello stesso sesso).
Non basta che un bambino abbia comportamenti di genere atipici perché questo si traduca, da adulto, in un orientamento omosessuale
Una volta raggiunta questa certezza, se ne affaccia un’altra: “Potevo saperlo?”. Quest’ultima domanda non è presente sul sito dell’Agedo, ma è comunque diffusa. Tanto che anche lo psicologo e studioso della sessualità Jesse Bering, nel 2010, sente di doverne scrivere sul suo blog ospitato dal Scientific American. Predire l’orientamento sessuale dei figli, spiega, è un ambito di ricerca «relativamente recente». Da poco gli scienziati comportamentali hanno condotto «studi controllati con un obiettivo chiaro, cioè andare oltre i meri stereotipi e identificare i segni più affidabili di una futura omosessualità». Un campo scivoloso: il solo fatto di porsi la domanda, secondo molti, tradisce una posizione critica nei confronti dell’omosessualità. Perché doverlo sapere? La preoccupazione, sostiene Bering, quando non è proprio dettata da omofobia, tradisce comunque un pensiero «non molto liberale», che nei genitori è spesso legato «al peso riproduttivo della prole». I geni, in caso di figli omosessuali, avrebbero più difficoltà a propagarsi. A meno che «non diventino creativi».
Ma gli scienziati sono scienziati, e se non c’è chiarezza la ricerca – quando non è influenzata da pregiudizi – va comunque fatta. Il problema è che, secondo gli studi raccolti finora, le conclusioni non sono affatto semplici. Il lavoro più antico (ma anche più controverso) che apre la questione risale al 1995. È uno studio condotto da J. Michael Bailey, della Northwestern University e dal contestatissimo (qui si spiega perché) psichiatra canadese Kenneth Zucker, pubblicato su Developmental Psychology. I risultati delle ricerche giungono a conclusioni che, in modo curioso, avvalorano alcuni stereotipi diffusi. I maschi che da adulti si dichiareranno omosessuali, si spiega, durante l’infanzia manifestano scarso interesse per i giochi di lotta tra bambini, preferiscono i giochi con le bambole, cercano la compagnia delle femmine più di quella dei maschi e rifiutano di impersonare ruoli “maschili” adulti. Le femmine che si dichiareranno omosessuali, al contrario, amano lo scontro fisico, la compagnia dei maschi e con le bambole, invece, si annoiano.
Non solo. Un altro studio del 2008, apparso su Archives of Sexual Behaviour, arriva più o meno alle stesse conclusioni, ma con un metodo diverso: basandosi sui ricordi di un gruppo di ventenni/trentenni, ricostruisce le caratteristiche degli interessi dell’infanzia. Certo, è difficile che la memoria non sia tendenziosa (e questo è uno dei motivi per cui lo studio è stato contestato), ma in generale le ricostruzioni dei soggetti intervistati sottolineano, per i maschi omosessuali, interesse nei vestiti femminili, nella compagnia delle bambine e negli sport individuali anziché di gruppo. I bisessuali, invece, ricordano uno spiccato desiderio di “essere dell’altro sesso”. La cosa notevole dello studio è che è stato condotto in Brasile, Turchia e Thailandia. Secondo l’autore, la distanza delle popolazioni considerate è sufficiente per attenuare le implicazioni culturali nelle risposte. Sarà.
«Nulla di tutto queste ricerche suggerisce, in nessuna maniera, che l’orientamento sessuale sia il frutto di una scelta»
Infine, sempre nel 2008, è uscita su Developmental Psychology una ricerca condotto da Gerulf Rieger, anche lui della Northwestern University, che ha utilizzato un metodo retrospettivo puntando sulla scelta delle videocassette guardate dai soggetti esaminati quando erano bambini. È emerso che i bambini pre-omosessuali, nelle scelte dei film e dei video, nutrissero interessi meno conformi agli stereotipi di genere rispetto ai bambini pre-eterosessuali. Sembra tutto chiaro, ma in realtà non lo è.
Come si premura di sottolineare Jesse Bering, tutti questi studi sono da prendere con grandi, enormi pinze. Non basta che un bambino abbia comportamenti di genere atipici perché questo si traduca, da adulto, in un orientamento omosessuale, spiega. Succede, certo, ma è una correlazione imperfetta. Non tutti i bambini che amano vestirsi da donne si scoprono gay, e così non tutte le bambine che amano i giochi violenti si rivelano omosessuali. Senza dimenticare che, continua, gli studi seguono, nonostante l’evidenza dei casi, una campionatura statistica e possono essere influenzati da pregiudizi di genere.
In tutto questo, poi, emerge un elemento cruciale: «I ricercatori concedono con facilità che, con ogni probabilità sono molteplici, e molto complicate, le vie che portano all’omosessualità in età adulta». Che significa? Che i fattori ereditari, genetici e biologici interagiscono (come per ogni variabile della popolazione) con le esperienze ambientali, e che – nonostante ci siano molti tratti che emergono prestissimo nei bambini pre-omosessuali – possono esistere esperienze particolari «cui vengono ricondotti gli orientamenti sessuali». Bering cita uno studio che mette in luce «come alcuni maschi i quali durante l’infanzia hanno subìto violenze sessuali abbiano una probabilità maggiore di sviluppare relazioni omosessuali da adulti».
Cosa significa questo? Forse nulla, e allora lo studio è da dimenticare (come molti hanno deciso di fare) o forse che dire che «omosessuali si nasce è troppo semplicistico», conclude Bering. Da qui in poi le cose si fanno complicate, soprattutto perché sul tema il dibattito è ideologizzato e ogni conclusione rischia di venire strumentalizzata contro gli omosessuali. Ma di fronte al fiorire di teorie su pseudocomplotti “omosessualisti” è sempre bene ricordare, come tiene a specificare Bering, che «nulla di tutto queste ricerche suggerisce, in nessuna maniera, che l’orientamento sessuale sia il frutto di una scelta». E questo è, almeno, un punto fermo.