Fulvio Scaglione: L’Europa indecisa a tutto ha già smesso di esistere

Alla prova dei fatti, una politica estera comune non è stata possibile. Divisa al proprio interno, senza strategie comuni, la Ue subisce gli eventi e finisce al traino di decisioni altrui

È un’Europa indecisa a tutto, quella di questi tempi. Succube delle richieste della Turchia, spaventata dall’ondata dei migranti, incapace di reagire o anche solo di agire di fronte alla minaccia islamica e al conflitto in Siria. Se non ci fossero le istituzioni, presenti anche solo a livello simbolico, la sensazione più diffusa è che, in realtà l’Europa non esista più. A giudicare dalla sua politica estera, frantumata e balbettante, è difficile pensarla in modo diverso. Lo pensa Fulvio Scaglione, vicedirettore di Famiglia Cristiana e da tempo attento osservatore dell’evoluzione (o, forse, dell’involuzione) dello scenario geopolitico contemporaneo.

Insomma, l’Europa è un disastro.
Per larghi versi sì. È finita. È andata in pezzi. Ha perso compatezza, non ha più capacità di intervenire, è in balìa degli eventi.

Non è che sia mai stata compatta e capace di intervenire.
Vero, certo. Ma questa dispersione non si era mai vista. È la diretta conseguenza dell’allargamento rapido a Est, includendo Paesi che hanno, in realtà, un’agenda propria e diversa da quella degli altri. Ecco, volendo schematizzare la situazione, ci sono due Europe: una occidentale e una orientale, che seguono due agende diverse. Risultato: quando c’è da prendere decisione si crea la paralisi. E così non contiamo più niente.

E la Turchia, un tempo filoccidentale, adesso può permettersi di tenere in pugno un continente.
Non è che ci sia un distacco dalle posizioni filoccidentali da parte di Ankara. Quando si tratta di questioni militari la Nato, che è la più grande alleanza militare occidentale della storia, si muove in sua difesa, anche per difendere il suo confine con la Siria – e, detto con franchezza, è anche esagerato. Il vero problema è tutto nell’Unione Europea, che non riesce a far fronte all’immigrazione, non sa trovare una politica comune su nulla, non oppone proposte forti. I turchi – come del resto l’Arabia Saudita – hanno capito che né Usa né Europa sono in grado di organizzare una risposta fattiva. E agiscono di conseguenza.

Un altro grande protagonista del declino europeo è la Russia.
Sì, ma a differenza di quanto si sostiene, non è un Paese “attaccante”. Dagli anni ’90, dopo la dissoluzione dell’Unione Sovietica, Mosca è stata sempre sulla difensiva. Ed è comprensibile. Da tempo si portano avanti operazioni che mirano a suscitare una sua reazione, spesso violenta. Lo si è visto nel 2008, con l’installazione di uno scudo stellare “difensivo” in Polonia (e che, in realtà, era offensivo). Ci avevano raccontato che sarebbe stata una misura contro il nucleare iraniano, mentre in realtà mirava a creare uno squilibrio nucleare. Lo stesso copione s è visto ancora, qualche anno dopo, con l’Ucraina. Il “regime change” di Poroschenko e altri politici foraggiati dalla Nato, voluto dall’occidente, non poteva che costituire una provocazione per Mosca, e la risposta è arrivata.

Ma a che scopo vengono condotte queste operazioni?
Non so se ci fosse uno scopo preciso. Era, come spesso accade, una operazione dissennata fatta pensando che non lo fosse. In tutto questo, però, si può leggere una tendenza.

Quale?
Quella della frammentazione. È il prodotto finale, il risultato. Si rompono equilibri, si creano disordini, si annullano poteri di entità ritenute scomode. Certo, scomode per certi circoli americani. E se si guarda bene, questo mantra è ancora ripetuto: occorre dividere, spezzettare, creare nuove entità. In questa ottica anche Iraq, Siria e Libia vanno divisi in staterelli. Se si guarda bene, anche il fenomeno dello Stato Islamico, che appunto sorge rivendicando sovranità statale, è una realtà che si inserisce molto bene, forse in modo involontario, in questo quadro di disgregazione.

È il classico “divide et impera”, però. Solo, di matrice americana.
Non è nemmeno quello. Qui siamo al “divide” e basta. Non vogliono controllare, vogliono che nessuno controlli. Perché mettere mani ai pasticci quando, per loro, basta che ci siano i pasticci? È una costante della politica estera Usa, ed è pure contenuta in un “breviario”, La grande scacchiera di Brzezinski. È tutto lì.

Volendo schematizzare la situazione, ci sono due Europe: una occidentale e una orientale, che seguono due agende diverse. Risultato: quando c’è da prendere decisione si crea la paralisi. E così non contiamo più niente

Intanto, però, nella frantumazione emergono nuovi protagonisti, fino a pochi anni fa impensabili, come l’Iran.
Esatto. L’Iran ha una rara caratteristica per gli Stati di quell’area: è uno stato-nazione, come Turchia ed Egitto. Ci sono leggere divisioni, diversità, ma non sono laceranti. Il popolo iraniano è molto unito. Anzi, la vera religione dell’Iran è proprio l’Iran.

L’identità per loro è importante.
Oltre alla storia, ci sono state politiche dirette in questo senso. Lo si è visto nel caso del nucleare: pur nelle varie estrazioni e ideologie, il popolo iraniano si è trovato compatto a rivendicare quello che considerava il suo diritto al nucleare. In mezzo a questo “spezzatino”, che condanna il medioriente, l’Iran al contrario si erge come portatore di ordine e di stabilità.

E allora noi facciamo bene a intavolare affari con Teheran?
Come sempre, le iniziative in questo campo sono del tutto casuali, seguono logiche momentanee, prive di strategia. L’Italia, come l’Europa, vivono al traino degli eventi. C’è l’Iran, e allora va bene. Ma in questa confusione è difficile orientarsi. Lo si vede anche nel caso libico.

Cosa si deve fare, a livello europeo, di fronte alla crisi della Libia?
È complicato. Ogni paese, appunto, ha le sue ragioni. Si può dire che ci sia una sorta di uguaglianza tra Italia ed Europa nei confronti, rispettivamente, di Libia e Turchia. Cioè, l’Italia sta alla Libia come l’Europa alla Turchia. Cioè, non sa intervenire, balbetta, cerca una soluzione senza saperla trovare.

E la guerra?
Finora la posizione di attesa e prudenza da parte del governo italiano è apparsa, come del resto è, piuttosto ragionevole. Il problema è che, agendo ognuno con proprie tattiche, non si può prevedere un’azione comune. Il rischio è che l’Italia venga trascinata in una guerra che non vuole fare, come nel 2011, quando Regno Unito e Francia, attaccando Gheddafi, di fatto hanno colpito l’Italia.

E certo, l’Italia dovrà scegliere: o andare con l’Europa e attaccare la Libia, oppure non intervenire.
In entrambe le situazioni ci saranno svantaggi. Con la guerra, il rischio di impantanarsi in un conflitto disastroso, è altissimo. Con la neutralità, la possibilità di perdere il controllo dei propri interessi nella zona è altrettanto alto. Certo, non può schierarsi contro i partner europei, e combatterli, quello no. Sarà sempre una situazione lose-lose.

E allora, tornando al quadro generale europeo, esistono soluzioni praticabili?
È difficile dirlo. Tanto per cominciare, bisogna prendere atto che ci sono, in Europa, Paesi che guardano a Bruxelles per le questioni spicciole, come tasse e permessi, ma per le scelte di politica estera e militare hanno, come punto di riferimento, Washington. Mi riferisco ai Paesi baltici, alla Norvegia.

E poi?
Poi bisogna decidere anche cosa è meglio non fare. È meglio evitare di appiattirsi sulle posizioni politiche americane, che esprimono i loro interessi che non sempre – e in questi ultimi anni, anzi, molto poco – coincidono con i nostri di Paesi europei. Non è anti-americanismo, questo, è una presa d’atto. E poi, ad esempio, la guerra in Libia è meglio non farla. Per tutto il resto, una politica comune sarebbe utile, ma non c’è. Ed è difficile che arrivi in poco tempo.

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