C’è chi ne va orgoglioso, chi ripete che “piccolo è bello”, e che le piccole e medie imprese sono la spina dorsale del nostro Paese, il sostegno al sistema di imprenditorialità diffusa, il miglior strumento di trasmissione di quel know how spesso di nicchia e di origine artigiana che nei distretti ha trovato il proprio nido.
La crisi che dal 2008 ci ha colpito ha però messo a dura prova questo modello, e in molti si sono chiesti a ragione se non vi fossero anche delle falle e dei lati negativi.
I fatti ci dicono, dati Eurostat 2013, che siamo il Paese con il maggior numero di imprese: 3,77 milioni, contro i 3 della Francia, le 2,2 milioni della Germania, le 2,3 milioni della Spagna.
Se pensiamo alle solo aziende manifatturiere, le cifre divengono quasi parossistiche, in Italia ve ne sono il doppio che in Germania, e l’80% in più che in Francia.
Come può accadere questo se la Germania per esempio ha una popolazione di 20 milioni maggiore della nostra e un Pil dell’85% superiore?
La risposta sta nell’immensa differenza nel numero di imprese con meno di dieci dipendenti, che sono quasi il triplo in Italia. Viceversa in Germania sono il triplo quelle al di sopra di 250 dipendenti.
Il confronto con la Francia non presenta enormi differenze, se non nelle micro-imprese, mentre il gap con la Germania comincia in realtà dalle aziende con più di 50 lavoratori.
Si capisce meglio come ci distinguiamo dai nostri partner europei, considerando le percentuali di imprese in base al numero di dipendenti. Per meglio capire i dati è utile usare i valori per 1.000 e una scala logaritmica.
Solo il 2,34% delle imprese italiane hanno più di 50 lavoratori, contro il 10% in Germania, il 3,22% in Francia, il 2,8% in Spagna.
In Italia sono il 90% quelle con meno di 20 dipendenti.
Tutto ciò sempre nelle aziende manifatturiere, in cui a dispetto della numerosità delle imprese, soffriamo invece un gap crescente nel numero di lavoratori: a 204mila aziende in più corrispondevano 93mila occupati in meno. Erano 68mila nel 2008, a fronte di un vantaggio di 262mila imprese in più.
Avere più aziende non significa avere più occupazione, lo vediamo. Ma ha altre conseguenze? Sì, ma non necessariamente positive, anzi.
L’Istat ha effettuato uno studio che mostra molto bene come ancora più nel settore manifatturiero che in quello dei servizi la produttività per lavoratore è molto più alta nelle grandi imprese, e cresce quasi linearmente con l’aumento dei dipendenti. Certamente nelle grandi aziende è ampia anche la variabilità, ma in ogni caso anche il 25% di grandi imprese meno produttive genera un maggiora valore aggiunto per lavoratore della migliore micro-azienda.
Le stesse differenze si ritrovano nella tendenza all’internazionalizzazione e all’export, che è stato quello che, ricordiamolo, ha frenato almeno in parte la recessione dal 2011 in poi.
Si ritrova una correlazione tra grande quota di fatturato ottenuta tramite le esportazioni, alto valore aggiunto e presenza di più di 50 addetti.
Durante gli anni duri della crisi sono state le imprese più grandi quelle che sono riuscite a continuare a investire e soprattutto a fare attività di ricerca e sviluppo.
In particolare se guardiamo alle tipologie di investimento in cui più si differenziano grandi e piccole imprese vediamo quelli di cui più in Italia sono carenti e di cui avremmo assolutamente necessità, per esempio sulla formazione dei dipendenti o sul risparmio energetico. Una quota doppia di aziende sopra i 250 dipendenti ha investito in aggiornamento per i lavoratori rispetto a quelle tra i 10 e i 49, anche volendo escludere le micro-imprese.
Analoghe differenze sono presenti anche in Germania, certamente. È un problema quindi strutturale, e diventa evidente la necessità di agire non solo sulla qualità delle singole aziende, ma sulle dimensioni delle stesse.
L’esigenza non può essere quella di disprezzare le piccole imprese italiane, ma di farle crescere, farle unire. Il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan ha parlato di progetti di “elettroshock fiscale” per incentivare delle fusioni, per evitare che permanga quel nanismo aziendale anche nell’epoca delle startup, che altrove se sopravvivono si trasformano e crescono, in Italia si bloccano a un livello artigianale.
Sembra un progetto più concreto di altri. Purché non rimanga tra le promesse.