Controllati che vanno a braccetto con i controllori, documenti che spariscono e incidenti coperti. Sono gli ingredienti principali del filone ambientale della cosiddetta “trivellopoli” potentina. D’altronde gli scandali ambientali hanno un denominatore comune ben riassunto dal consigliere della Direzione Nazionale Antimafia Roberto Pennisi, che in una delle sue relazioni ha definito la criminalità ambientale come frutto di “centrali affaristico-imprenditorial-criminali”.
L’INDAGINE
Tutti innocenti fino a sentenza definitiva gli indagati, ma dalle carte degli investigatori del Noe (Nucleo Operativo Ecologico) dei Carabinieri emerge uno spaccato che risponde in tutto e per tutto con la fotografia scattata da Pennisi. Da una parte la grande Eni incappata in «Gravi reati ambientali causati dal management», scrivono i pm, dall’altro funzionari della Regione Basilicata, dell’Agenzia Regionale Per l’Ambiente della Basilicata e sindaci pronti a mettersi a disposizione.
Eni dal canto suo si sta difendendo: inizialmente ha fatto subito sapere che «sulla base di verifiche esterne commissionate dalla società stessa, il rispetto dei requisiti di legge e delle best practice internazionali», mentre negli ultimi giorni è passata all’artiglieria pesante comprando pagine intere sulle maggiori testate giornalistiche italiane.
L’inchiesta di pm di Potenza ha portato all’arresto di cinque funzionari Eni, oltre a politici locali e dipendenti della regione. Tra loro Vincenzo Lisandrelli (coordinatore ambiente del reparto sicurezza e salute all’Eni di Viggiano), Roberta Angelini (responsabile Sicurezza e salute dell’Eni a Viggiano). Nicola Allegro (responsabile operativo del Centro oli di Viggiano), Luca Bagatti (responsabile della produzione del distretto meridionale di Eni) e Antonio Cirelli (dipendente Eni nel comparto ambiente). Il divieto di dimora deciso per l’ex vice sindaco, Giambattista Genovese, e per un dirigente della Regione Basilicata, Salvatore Lambiase. In tutto gli indagati sono trentasette.
Per gli inquirenti vi è una «accertata naturale inclinazione di funzionari e tecnici dell’Eni» coinvolti nell’indagine «all’alterazione e mistificazione di dati concernenti l’attività di gestione dei rifiuti al fine di precostituire uno stato di fatto difforme dalla realtà». Così una parte del centro oli di Viaggiano finisce sotto sequestro: per l’accusa la classificazione dei rifiuti da pericolosi (i cui costi variavano a seconda degli operatori da 40 euro a tonnellata a 90 euro a tonnellata) a non pericolosi (al costo di euro 33,01 per tonnellata) avrebbe contribuito a un avvelenamento tramite le acque reiniettate.
Questa è la tesi dei pm di Potenza che rilevano come «l’attività di reiniezione dei reflui liquidi all’interno del Pozzo Costa Molina 2, nelle modalità illecite che sono state osservate da Eni e contestate nel corpo della richiesta cautelare, ha permesso all’azienda di conseguire, solo per il periodo settembre 2013-settembre 2014, un risparmio, e dunque un profitto ingiusto, di valore compreso tra i 34.164.040 di euro e i 76.869.090 di euro».
Da ieri (12 aprile) il Tribunale del Riesame sta esaminando i ricorsi degli arrestati per confermare arresti e divieti di dimora. Venerdì davanti allo stesso tribunale comparirà anche l’Eni che chiederà la revoca del sequestro di due vasche per la lavorazione dei rifiuti di Viggiano.
GLI EPISODI
Non ci sono solo classificazioni alterate dei rifiuti. Tra le carte dell’inchiesta ci sono anche problemi agli impianti non segnalati, «i vertici del Centro dell’Eni» si legge «decidevano deliberatamente e in diverse occasioni» di imbrogliare sulle comunicazioni riguardanti le anomalie al «fine di nascondere le inefficienze dell’impianto». Dunque episodi che avrebbero meritato segnalazioni di malfunzionamento dedicate venivano invece riunite in una unica segnalazione per diminuire il numero degli incidenti portati all’attenzione dei controllori.
Per non parlare di almeno tre episodi che hanno coinvolto altrettanti dipendenti a causa dell’inalazione dell’idrogeno solforato. Proprio sulle emissioni della sostanza, che in prossimità di centri come quello Eni può trovarsi in concentrazioni di circa 300 volte il normale, gli inquirenti annotano come le fughe «avvengono con una certa frequenza».
Nella giornata di ieri il Tribunale del Riesame ha confermato gli arresti per i funzionari Eni, mentre Venerdì lo stesso tribunale vedrà comparire davanti al collegio l’azienda pubblica che chiederà la revoca del sequestro di due vasche per la lavorazione dei rifiuti di Viggiano
IL FUNZIONARIO CHE CONTRIBUISCE ALLO SVILUPPO DELL’INCHIESTA…
Una spinta determinante alle indagini arriva da un architetto, responsabile dell’Ufficio del Ciclo delle Acque di Regione Basilicata. Si chiama Paolo Baffari, ed è il tecnico che mette nero su bianco di «non poter procedere al rinnovo dell’autorizzazione» per quanto riguarda le attività di scarico, evidenziando più avanti come «l’attività di reiniezione nel pozzo costa Molina, dal 10 settembre 2013, avviene senza legittima autorizzazione».
L’autorizzazione arriverà poi, tramite una nota da un altro ufficio, quello di uno degli indagati, Salvatore Lambiase, responsabile dell’Ufficio Compatibilità Ambientale della Regione Basilicata. Nota che però, si legge agli atti dell’indagine, risulta «illegittima poiché l’ufficio che ha adottato tale nota non è deputato al rilascio della citata autorizzazione».
Baffari è anche uno dei funzionari della Regione in contatto con il Noe dei Carabinieri durante l’inchiesta. Fu infatti l’architetto a predisporre tredici documenti che le Forze dell’Ordine avrebbero dovuto recuperare durante la perquisizione. Alla consegna dei documenti (delibere e atti degli uffici tecnici) l’incaricato, che non è Baffari, ne consegna però solo dieci. i Carabinieri si accorgono che una “manina” ha sottratto tre documenti dal plico: Baffari via mail aveva già spedito i documenti al Noe numerati. Numerazione che sul cartaceo poi recuperato dai Carabinieri presso la Regione era stata modificata a mano.
…E LA PRESUNTA “TALPA” ALL’ARPAB
Nel Piano della Performance 2016-2018 l’Arpa Basilicata scrive chiaramente che vi è da superare un momento di «criticità gestionali e finanziarie che hanno sostanzialmente paralizzato l’attività per diversi anni», dovuto anche a «incancrenite problematiche derivanti dalle gestioni precedenti». Dunque i controllori in questi anni sembrano aver funzionato poco, per loro stessa ammissione. Non a caso i pm puntano il dito sugli ex direttori Raffaele Vita e Aldo Schiassi. «Può ritenersi – scrivono gli inquirenti – che il grave comportamento omissivo vada ascritto innanzitutto ai Direttori ARPAB susseguitisi nel corso della vicenda».
Tra i collaboratori dell’Arpab si trova anche un altro nome finito nelle carte della procura di Potenza, quello di Egidio Giorgio, «validatore principale dei dati di monitoraggio» per quanto riguarda le emissioni dai camini. Giorgio, tra i 37 indagati, in virtù del ruolo di validatore intratteneva rapporti con Vincenzo Lisandrelli, responsabile Eni dello smaltimento rifiuti liquidi del centro oli. Un «ruolo “ondivago”» lo definiscono i pm quello di Giorgio, «che, da una parte, risultava dipendente della E.B.C. Environment Building Corporation srl Unipersonale e, dall’altra, intratteneva rapporti lavorativi sia con ARPAB che con ENI». I controllori che vanno a braccetto con i controllati.